venerdì, Novembre 22, 2024
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Le leggi razziali del ’38

Il 27 gennaio 1945 le truppe della 60 armata sovietica del maresciallo Konev entravano nel piccolo villaggio di Aushwitz e aprivano i cancelli del campo di concentramento che sarebbe diventato il simbolo della Shoah, un processo che dalla notte dei cristalli alla fine della guerra causò quasi sei milioni di morti, donne, anziani, bambini trattati come animali e uccisi come tali, privati perfino nella morte della propria dignità di esseri umani. Proprio per l’atrocità di tutto questo si tende però a dimenticare quel lungo quanto straziante processo di discriminazione che ha portato a quei morti, un processo che tendiamo a occultare in una sorta di amnesia collettiva, forse per levarci di dosso quella sensazione di intima colpevolezza che tanto ci disturba, quel senso di colpa figlio di un’indifferenza che non fu né meno crudele né meno determinante in quelle azioni della follia dei loro artefici. Nel nostro paese il segno indelebile sia di questa indifferenza che di quella follia furono le leggi razziali del ’38, che con un decreto del Gran Consiglio del fascismo sancivano l’esclusione dei non ariani da qualsiasi ruolo amministrativo e dalla scuola pubblica, relegandoli al ruolo di cittadini di seconda classe. Queste leggi sono spesso giustificate come prezzo da pagare per l’alleanza con la Germania nazista, quando invece non solo furono elogiate dalla frangia radicale del PNF ma non furono contestate neanche dal più accanito degli antifascisti, dimostrando come il nostro paese fosse e sia ancora più razzista di quanto crediamo. E se è vero, come si dice, che la storia non si ripete ma fa le rime, quelle che si possono trovare con il periodo delle leggi razziali non sono solo molteplici ma suonano riecheggianti in un contesto in cui la propaganda politica di alcuni partiti si fonda su principi razzisti ed antislamici, mostrandoci in fondo a quanto poco siano serviti fino ad oggi i tentativi di non far ripetere quegli errori.

C’è un principio in filosofia: essere è e non può non essere e il non essere non è e non può essere, di conseguenza il concetto di non colpevolezza non ha senso ed esiste solo l’essere colpevoli o innocenti ed io in definitiva non mi sento né penso che mi sentirò mai di definire la nostra società innocente, ma al contrario colpevole di un’indifferenza che è la più tremenda delle colpe.

Alfredo Giorgianni II Liceo Scientifico

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