UTOPIA SOLTANTO O PRATICO SENSO DELLA REALTA?
“L’amore è saggio, l’odio è folle. In questo mondo, che sta diventando sempre più interconnesso, dobbiamo apprendere a tollerarci l’un l’altro, dobbiamo apprendere ad accettare il fatto che qualcuno dirà cose che a noi non piacciono. Possiamo vivere insieme solo in quel modo. Se vogliamo vivere insieme e non morire insieme, dobbiamo imparare una qualche forma di carità e di tolleranza che sono assolutamente vitali per la sopravvivenza della vita umana su questo pianeta.”Così diceva, già nel 1959, Bertrand Russell, nel suo profetico “messaggio ai posteri”.
Ma viene da chiedersi, perché questo “amore” planetario, saggio, come lo definisce Russel, non riesce ad affermarsi compiutamente nel mondo e sembrano invece prevalere nella maggior parte dei casi l’odio, il rancore, l’intolleranza, o addirittura una ferocia più che animalesca? In fondo, a chi non piacerebbe, e anche non converrebbe, un mondo in cui si potesse vivere pacificamente, nel rispetto reciproco fra popoli sia pure di cultura e tradizioni diverse? Dobbiamo rassegnarci al fatto che tutto dipenda dalla nostra presunta natura perversa, che ci rende capaci di distinguere il bene dal male, ma incapaci di perseguire sempre e comunque la via della tolleranza e della solidarietà?
Noi pensiamo che c’entri qualcosa di altro, e cioè un modello di sviluppo che si configura in una infinita rincorsa al benessere, al consumo di sempre più beni, con l’occhio puntato a quel “prodotto interno lordo” che deve sempre aumentare, aumentare, aumentare senza fine e le cui ritrazioni gettano nello sconforto intere classi dirigenti e, di conseguenza, le popolazioni che esse governano, con pesanti ricadute sull’occupazione e sul livello di vita di ampi strati della società.
A proposito del “prodotto interno lordo”, basterebbe ricordarsi delle parole pronunciate da Robert Kennedy nel discorso tenuto all’università del Kansas il 18 marzo 1968, pochi mesi prima di essere assassinato. Il discorso più bello del mondo, come qualcuno lo ha definito.
«Non troveremo mai un fine per la nazione né una nostra personale soddisfazione nel mero perseguimento del benessere economico, nell’ammassare senza fine beni terreni. Non possiamo misurare lo spirito nazionale sulla base dell’indice Dow-Jones, nè i successi del paese sulla base del Prodotto Interno Lordo. Il PIL comprende anche l’inquinamento dell’aria e la pubblicità delle sigarette, e le ambulanze per sgombrare le nostre autostrade dalle carneficine dei fine-settimana. Il PIL mette nel conto le serrature speciali per le nostre porte di casa, e le prigioni per coloro che cercano di forzarle. Comprende programmi televisivi che valorizzano la violenza per vendere prodotti violenti ai nostri bambini. Cresce con la produzione di napalm, missili e testate nucleari, comprende anche la ricerca per migliorare la disseminazione della peste bubbonica, si accresce con gli equipaggiamenti che la polizia usa per sedare le rivolte, e non fa che aumentare quando sulle loro ceneri si ricostruiscono i bassifondi popolari. Il PIL non tiene conto della salute delle nostre famiglie, della qualità della loro educazione o della gioia dei loro momenti di svago. Non comprende la bellezza della nostra poesia o la solidità dei valori familiari, l’intelligenza del nostro dibattere o l’onestà dei nostri pubblici dipendenti. Non tiene conto né della giustizia nei nostri tribunali, né dell’equità nei rapporti fra di noi. Il PIL non misura né la nostra arguzia né il nostro coraggio, né la nostra saggezza né la nostra conoscenza, né la nostra compassione né la devozione al nostro paese. Misura tutto, in breve, eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta. Può dirci tutto sull’America, ma non se possiamo essere orgogliosi di essere americani».
Un modello di sviluppo che ha finito, tra l’altro, per determinare una sempre più diseguale distribuzione delle ricchezze e quindi a seminare sempre più odio, conflitti, lacerazioni sociali, con eserciti di disperati che poco o nulla hanno da perdere e che quindi sono disposti a tutto, e alcuni di essi anche alle azioni più feroci. E a creare, anche nei paesi più evoluti, nuove fasce di povertà e di disagio economico e sociale, che sembrano allargarsi continuamente e senza che si intraveda all’orizzonte una possibile soluzione o miglioramento del problema.
Quale può essere la soluzione? Diceva Havel, ex presidente della Repubblica Ceca, che i capitalisti erano capaci di produrre beni ma non sapevano distribuirli, mentre i comunisti sapevano distribuirli ma non sapevano produrli.
E allora l’unica soluzione che abbiamo davanti se vogliamo, tutti, sopravvivere, è produrre e consumare con criterio e sapere distribuire con equità e giustizia sociale. Non converrebbe forse a tutti, anche a chi oggi ha a disposizione immense ricchezze, che regnasse nel mondo una pace sociale senza la quale nessuno può ritenersi al sicuro, nessuno può pensare di sopravvivere in modo autonomo e non curandosi dei propri simili?
Lo straordinario sviluppo scientifico e tecnologico dell’ultimo secolo renderebbe peraltro possibile il superamento di ogni ostacolo alla realizzazione di un nuovo modello di società basata su una equilibrata distribuzione delle risorse così da permettere a tutti di vivere dignitosamente: può sembrare una utopia irrealizzabile, ma vien da pensare che, tra non molto tempo, gli abitanti di questo pianeta si troveranno a dovere fare i conti con questo problema, anzi possiamo dire che il problema è già all’ordine del giorno, anche se fingiamo che non esista, e non si può più a lungo eludere. La soluzione è possibile, c’è bisogno soltanto della volontà di raggiungerla per il bene di tutti.
Cinzia Coscia