Mafia S.p.A. Il business spregiudicato della pubblicità
Il termine “mafia” non possiede origini certe, ammantandosi di folklore e misticismo.
Una tesi poco accreditata lo farebbe derivare dall’arabo mahyas, traducibile come “tracotante spavalderia”; altri ritengono si tratti di un acronimo: Mazzini Autorizza Furti Incendi e Avvelenamenti (coniato, forse, dopo un viaggio, di cui non fu mai chiaro il fine, che lo statista genovese fece in Sicilia nel 1860), oppure Morte Alla Francia Italia Anela (slogan dei Vespri Siciliani in rivolta contro l’occupazione dell’esercito francese nel 1282).
La pubblicità, impietosa anima del commercio, ben conoscendo le suggestioni che il termine evidentemente trasmette fuori e dentro i confini italiani, attinge – con preoccupante frequenza – al mondo mafioso coniando slogan, logo, brand, marchi ed altri segni distintivi tipici del mondo dell’imprenditoria.
Tutto questo nella totale indifferenza dei consumatori, nonostante le stragi, le violenze, gli abusi, gli omicidi, i sequestri, gli abomini dell’associazione criminale.
Facendo leva sulla portata evocativa con cui si idealizzano i disvalori di cui il fenomeno associativo in questione è intriso, se ne riaccredita la subcultura col veicolare messaggi che alludono, con subdola e spesso pacchiana leggerezza a boss, riti d’iniziazione, loschi traffici ed ingiallite regole d’onore. Ciò non è dovuto tanto alla scarsa conoscenza del fenomeno, quanto anche al fatto che c’è ancora chi, intravedendo qualcosa di positivo, minimizza gli effetti legati all’uso a scopo di marketing della mafia relegandola così ad un mero fenomeno di folklore.
Roba quasi da apologia di reato.
Il Mafia sounding identifica tutti quei prodotti (beni e servizi) che richiamano, nel modo più disparato, la criminalità organizzata di stampo mafioso: cibo, vestiti, ristoranti, negozi, gruppi musicali, giri turistici, videogames e così via.
Si tratta di una questione alla quale contribuiscono gli stessi imprenditori italiani, ad esempio con i Mafia Tour o le visite guidate su I luoghi del Padrino, itinerari di dubbio gusto proposti per ripercorrere i luoghi siciliani ritenuti più icasticamente mafiosi, quasi si trattasse di escursioni a siti archeologici.
O, più semplicemente, pensiamo alle calamite da frigo ed alle statuine, vendute anche per strada nelle bancarelle, raffiguranti il mafioso (o la coppia di mafiosi) d’altri tempi con l’immancabile coppola in testa e la “tradizionale” lupara in spalla, o ancora alle magliette stampate con la truce ed impenetrabile espressione di Don Vito Coleone/Marlon Brando nell’interpretazione del celebre film tratto dal bestseller di Mario Puzo.
Si tratta di stereotipi, a cui evidentemente non si riesce a rinunciare, che mantengono viva l’idea che la mafia non solo sia viva e vegeta, ma che in suo nome si possa tranquillamente speculare attraverso fiorenti affari commerciali.
Dal Belgio alla Spagna, dalla Russia alla Grecia, dal Perù all’Argentina, dal Messico all’Egitto, dalla Macedonia alla Thailandia, dalla Bulgaria agli USA, in altre parole in tutti i Continenti proliferano ristoranti, trattorie, pizzerie, takeaway e bar “italiani” dall’inequivocabile nome: “I Mafiosi”, “Cosa Nostra”, “Mafia”, “Arte de Mafia”, “Bella Mafia”, “Mafia Pizza”, e così via. Scalpore ha recentemente destato l’apertura a Parigi del ristorante “Corleone”, gestito da Lucia Riina, figlia del defunto boss Totò.
Le pietanze che vengono servite non posso che essere “a tema”: i “Sorrentini di coniglio John Gotti”, i “Ravioli Al Capone”, le “Pappardelle Cremeno Organizzato”, la “Sauce Maffia”, il caffè bulgaro “Mafiozzo”, gli anacardi britannici “Chilli Mafia”, le spezie tedesche “Palermo Mafia shooting”, la salsa piccante statunitense “Wicked Cosa Nostra”, il tedesco “Fernet Mafioso”, il vino statunitense “Il Padrino” (“For those who dare to feel” ovvero “per quelli che osano sentirsi”), per fare alcuni esempi.
Persino il cannolo, dolce simbolo siciliano, è stato presentato dalla Tv pubblica Norvegese come Mafiakaker eller cannoli, ossia “Il dolce della mafia, i cannoli”. Per non parlare delle caramelle mafiose (reperibili su www.candymafia.com), del libro di cucina The mafia cookbook, stampato in Canada, e del sito www.mamamafiosa.com (in cui campeggia il motto “No one ever died from taking good advice”, ovvero “Nessuno è mai morto per aver preso un buon consiglio”) ricco di ricette “doc”.
Come denuncia la Coldiretti: «Il marchio mafia è usato a raffica nella ristorazione internazionale per fare affari, come nel caso della catena spagnola di ristoranti La Mafia che fa mangiare i clienti accanto ai murales dei gangsters più sanguinari (da Vito Cascio Ferro a Lucky Luciano, fino ad Al Capone)».
Si tratta di un business fiorente e plurimilionario che nulla a che vedere con l’eccellenza culinaria italiana e la sua tradizione e, più ampiamente, con lo stesso stile di vita degli italiani.
Italiani che, per fortuna – o per ripensamento critico – di tanto in tanto rialzano la testa.
Come nel caso del marchio spagnolo La Mafia se sienta a la mesa (tradotto La Mafia si siede a tavola), depositato nel 2006 presso l’EUIPO, l’Ufficio Europeo dei brevetti, dalla catena di ristoranti spagnoli La Honorable Hermandad (in seguito ridenominata La Mafia Franchises). Ritenendo che il marchio fosse contrario all’ordine pubblico ed al buon costume, la Repubblica italiana si è opposta, giacché il termine “mafia”, che identifica un’organizzazione criminale, abbinato alla ristorazione, oltre a suscitare sentimenti profondamente negativi, aveva come effetto di “manipolare”, oscurandola, l’immagine positiva della gastronomia italiana e banalizzare il senso negativo di tale elemento. Prova ne sia che la catena spagnola è arrivata a pubblicizzare, in partnership con la Coca-Cola, un viaggio premio “nell’Italia de Il Padrino”, naturalmente in Sicilia.
Contro la decisione dell’EUIPO di annullamento della registrazione del marchio, La Mafia Franchises ha proposto ricorso al Tribunale dell’Unione Europea che, con la sentenza del 15 marzo 2018, ne ha confermato la contrarietà all’ordine pubblico ed al buon costume. Ciò in quanto il marchio, considerato complessivamente, rinvia ad un’organizzazione criminale, trasmette un’immagine globalmente positiva di tale organizzazione e, pertanto, banalizza i gravi attacchi sferrati da detta organizzazione ai valori fondamentali dell’Unione.
Riportiamo un rilevante passaggio della sentenza: “Occorre poi rilevare che l’elemento verbale «la mafia» è globalmente inteso come facente riferimento ad un’organizzazione criminale con origini in Italia e le cui attività si sono estese a Stati diversi dalla Repubblica italiana, in particolare all’interno dell’Unione. È noto, del resto, … che tale organizzazione criminale ha fatto ricorso all’intimidazione, alla violenza fisica e all’omicidio al fine di svolgere le sue attività, che comprendono segnatamente il traffico illecito di droghe, il traffico illecito di armi, il riciclaggio di denaro e la corruzione. Il Tribunale ritiene che simili attività criminali violino i valori stessi sui quali si fonda l’Unione, in particolare, i valori del rispetto della dignità umana e della libertà, come previsti all’articolo 2 TUE e agli articoli 2, 3 e 6 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Tali valori sono indivisibili e costituiscono il patrimonio spirituale e morale dell’Unione. Inoltre, la criminalità organizzata e le attività menzionate … costituiscono sfere di criminalità particolarmente gravi che presentano una dimensione transnazionale … Pertanto, come sottolineano l’EUIPO e la Repubblica italiana, per lottare contro la Mafia sono impiegate considerevoli energie e risorse non soltanto dal governo italiano, ma anche a livello dell’Unione, giacché la criminalità organizzata rappresenta una minaccia seria per la sicurezza in tutto il suo territorio … l’elemento verbale «la mafia» è percepito in modo profondamente negativo in Italia, a causa dei gravi attacchi perpetrati da molti decenni da tale organizzazione criminale nei confronti della sicurezza di detto Stato membro”.
Ciononostante i vari ristoranti “La Mafia” continuano ad aprire accogliendo gli avventori alla ricerca di un artificioso viaggio nel tempo dal sapore vagamente nostalgico, giacché il marchio registrato in Spagna consente di sfruttare la mancanza di una normativa europea di armonizzazione della legislazione dei singoli Stati membri: oltre il danno, la beffa!
Ettore Prandini, Presidente Coldiretti, afferma: «Lo sfruttamento di nomi che richiamano la mafia è un business che provoca un pesante danno di immagine al Made in Italy, sfruttando gli stereotipi legati alle organizzazioni mafiose, banalizzando fin quasi a normalizzarlo, un fenomeno che ha portato dolore e lutti lungo tutto il Paese».
L’interrogativo da porsi è questo: ci si affrancherà mai, prendendo le distanze da un tale fenomeno pubblicitario che usa un brand così specifico per i propri giri d’affari e, quindi, a riscattare definitivamente l’immagine imbalsamata ed anacronistica della Sicilia, dei siciliani, della loro cultura? Il business spregiudicato della pubblicità ci permetterà un giorno di ordinare un caffè “Giovanni Falcone”.
Prof. Luigi Leone
Fonti:
winetaste.ithttps://www.winetaste.it/criminalita-allarme-mafia-style-dai-ristoranti-al-web/
altalex.comhttps://www.altalex.com/documents/news/2018/03/15/la-mafia-si-siede-a-tavola