venerdì, Novembre 15, 2024
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Le discriminazioni negano di fatto il diritto al lavoro

La Repubblica italiana è fondata sul lavoro e l’art. 1 della Costituzione, recitando “L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro” lo ribadisce. Il lavoro, pertanto, viene riconosciuto come un principio fondamentale per la vita economica e sociale del paese.

L’Italia vanta, però, nella realtà un triste primato in Europa, legato agli episodi di discriminazione sul lavoro, diseguaglianze di genere, età, razza, orientamento sessuale o fede religiosa. A sostenerlo è l’indagine “WorkForce in Europe 2018” promossa da ADP, studio condotto su un campione di 10mila lavoratori che mostra come, nella Penisola, il 42% degli interpellati si senta discriminato, contro una media europea del 34%.

Il lavoro per principio rappresenta uno dei fondamenti di tutte le società civili, poiché permette di soddisfare i bisogni più importanti e rende l’uomo libero. Nonostante ciò, ci sono molte problematiche che girano intorno ad esso, come ad esempio fenomeni preoccupanti come le “morti bianche”, il “lavoro nero”, la “fuga dei cervelli”, il “mobbing”, le discriminazioni, ecc…. Soffermandosi su questo, va detto che nel corso del tempo si sono verificati dei progressi nella lotta alle discriminazioni nel mondo del lavoro, ma nonostante ciò vi è un aumento della diseguaglianza sia nel reddito che nelle differenti opportunità di offerte di lavoro tra uomo e donna. La discriminazione sul lavoro colpisce infatti nella maggior parte dei casi la lavoratrice, che è da sempre sottoposta ad emarginazione, isolamento e penalizzazione in ogni forma di lavoro intrapreso per il solo fatto di essere di genere femminile.

Sin dall’Ottocento, quando le donne entrarono nel mondo del lavoro, non era condizione favorevole il ruolo di madre e moglie, era un ostacolo al raggiungimento della totale parità di condizioni lavorative con l’uomo. Nel dopoguerra invece la donna ebbe accesso al lavoro cominciando dal settore terziario e arrivando pian piano a diventare insegnante, fino a raggiungere l’imprenditoria e diventando una manager.

Oggi la donna è pienamente inserita nel mercato del lavoro, ma continuano ad esserci discriminazioni che si basano sulla errata convinzione che la essa sia, dal punto di vista produttivo ed anche dal punto di vista fisico, “inferiore”.

La donna, inoltre, è soggetta spesso sul posto di lavoro a molestie sessuali, con le quali si intende “ogni atto o comportamento indesiderato, anche verbale, a connotazione sessuale arrecante offesa alla dignità e alla libertà della persona che lo subisce, suscettibile di creare ritorsioni o un clima di intimidazione”. Tali molestie sessuali sul lavoro sono da considerarsi tra le violenze psicologiche più gravi e più offensive che la donna possa subire nella propria vita. La discriminazione sessuale quindi è uno dei più vili comportamenti che l’uomo adotta per colpire e rafforzare l’idea che l’essere femminile sia inferiore e non capace di rapportarsi nell’ambiente lavorativo alle stesse condizioni dell’uomo.

Tra gli obiettivi individuati dal “Comitato Nazionale di Parità” c’è quindi la rimozione di tutti gli ostacoli che impediscono la realizzazione di un’effettiva parità di genere, garantendo un’adeguata rappresentanza femminile anche in quei settori dove le donne sono tradizionalmente sottorappresentate. Sono quelle che sono state definite “quote rosa”, e tutto ciò viene fatto nella consapevolezza che le politiche di pari opportunità devono agire sull’organizzazione del lavoro, favorendo un equilibrio tra responsabilità familiari e professionali. Ma si tratta di qualcosa di imposto che ancora a livello culturale deve farsi strada, mentre le discriminazioni di genere e non permangono nella realtà.

Per comportamento discriminatorio s’intende, infatti, anche “qualsiasi tipo di molestia attuata allo scopo di violare la dignità della persona e creare un clima degradante, umiliante e offensivo”. Ci sono quindi esempi di discriminazione per motivi di razza, religione, origine sociale, casta, appartenenza ad una popolazione indigena o ancora nei confronti dei lavoratori migranti. Costanti sono le conseguenze della discriminazione nei confronti di lavoratori giovani o anziani, e le disuguaglianze per ragioni di orientamento sessuale, sieropositività o disabilità.

La discriminazione, a volte, si verifica attraverso maldicenze, umiliazioni, intimidazione, sabotaggi, offese sistematiche, mobbing e forme di controllo eccessive all’intento di isolare ed emarginare un lavoratore allo scopo di spingerlo alle dimissioni o al licenziamento. 

Uno dei fenomeni più recenti della discriminazione è la diffusione di pratiche che penalizzano quei lavoratori con “una predisposizione genetica a sviluppare determinate malattie o coloro che hanno uno stile di vita considerato non sano”. I test genetici, ove utilizzati, hanno delle conseguenze importanti nell’ambiente di lavoro in quanto permettono ai datori di lavoro di discriminare lavoratori la cui condizione genetica mostra in futuro lo sviluppo di una determinata malattia. Sono state però già avviate alcune azioni legali per “discriminazione genetica sul lavoro”, anche se in Italia la discriminazione sul lavoro non è più un reato, ma è stato trasformato in un illecito amministrativo a seguito del decreto di depenalizzazione in materia di lavoro e di legislazione sociale.

Ciò non toglie che la disciplina in Italia in tema di discriminazione sia una delle più severe in assoluto nei confronti dei datori di lavoro. Se un lavoratore si ritiene discriminato o crede che la propria candidatura sia stata scartata per motivi illeciti, può far valere i propri diritti nelle sedi giudiziarie opportune, dove è stato creato appositamente il Giudice del lavoro proprio a tutela dei lavoratori. Le cause legali però spesso lunghe, talvolta costose, e molti lavoratori desistono nella battaglia per il riconoscimento dei propri diritti. E questo in una società basata sul diritto non è ammissibile.

Sofia Bucolo

Classe III, Scuola Sec. di 1° grado “Foscolo” di Barcellona P.G. (ME)

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