GLOBALIZZAZIONE, RADICI TRA LUCI E OMBRE
Globalizzazione è una parola che ai giorni nostri conoscono tutti. Ha radici antiche, ma il suo significato attuale si è sviluppato tra gli anni Ottanta e Novanta del XX secolo, grazie al crollo dei principali sistemi comunisti, in particolare quello sovietico nel 1989, ricordato simbolicamente con l’abbattimento del Muro di Berlino, e quello cinese, iniziato dopo la morte del dittatore Mao Zedong. Definire cosa sia precisamente è molto difficile ed in molti casi controverso. Se ne potrebbero elencare varie tipologie. Si parla ad esempio di “globalizzazione dell’informazione” per fare riferimento al fatto che, grazie ai nuovi mezzi di comunicazione, le notizie possono viaggiare più velocemente che in passato e raggiungere qualsiasi punto del mondo. Oppure di “globalizzazione culturale” quando si vuole evidenziare che alcuni stili di vita e alcune abitudini si diffondono rapidamente da un luogo all’altro della Terra, spesso a scapito delle tradizioni locali, che invece vanno via via scomparendo. Tuttavia il termine viene usato principalmente e più spesso in campo politico ed economico.
La globalizzazione dell’economia può essere considerata come una fase del capitalismo moderno caratterizzato da una accelerata integrazione internazionale delle attività economiche, sia nelle forme tradizionali – commercio e investimenti diretti all’estero – sia in forme nuove, come investimenti finanziari a breve termine, speculazioni sui cambi, commercio in servizi, variegati accordi tra imprese, complessi flussi di conoscenze e tecnologie. Anche lo sviluppo delle telecomunicazioni e l’intensificarsi degli scambi commerciali inoltre hanno, negli ultimi decenni, rivoluzionato l’economi rendendola, appunto, globale. A partire dal 1989 infatti con la caduta del Muro, che innescò l’apertura delle porte tra l’Occidente e la Cina che a sua volta, pochi anni dopo, scelse di entrare nel sistema capitalistico, si ebbe l’illusione di avere abbattuto tutti i muri e di avere così la strada spianata per far luce e far avanzare il processo planetario.
La globalizzazione ha dunque facilitato gli scambi internazionali, producendo maggiore benessere con un’efficienza tale che a metà del secolo scorso i nostri antenati non avrebbero mai potuto immaginare. Essa infatti permette la libera circolazione di materie prime che giacciono esclusivamente in una determinata parte del mondo, di prodotti alimentari che crescono solo su uno specifico terreno o clima, o di capitali, senza barriere protezionistiche. Il nostro pianeta viene usato come un unico enorme serbatoio di materie prime e forza lavoro e come un grande mercato di vendita. Protagoniste indiscusse di questo nuova forma di commercio sono certamente le imprese multinazionali, di grandissimo spessore e dimensioni, svincolate da una base territoriale, che organizzano la propria attività sia produttiva che commerciale su scala mondiale. Questo vuol dire che, nonostante abbiano una, “casa-madre”, hanno anche centinaia di migliaia di dipendenti e sedi sparse in tutto il mondo, costituite dalle “case-madri” di ogni marchio che la multinazionale stessa ha ottenuto. Ma nonostante queste siano le fondamenta della globalizzazione, rappresentano al tempo stesso anche un grande pericolo.
Dal momento in cui, in quasi tutti i casi, hanno un concreto “potere”, possiedono cioè un’enorme potenza economica che possono sfruttare sia in modo positivo, ovvero sostenendo i regimi che le appoggiano o finanziare associazioni umanitarie, sia in modo negativo, per esempio sovvenzionando anche organizzazioni terroristiche. Presentano per di più degli svantaggi di non poca rilevanza nei Paesi ancora in via di sviluppo. Nonostante l’apertura di filiali di multinazionali favorisca lo sviluppo di un’attività industriale, si tratta pur sempre di un’imposizione imprenditoriale. Ciò significa che i vertici di queste imprese rimangono nelle mani di dirigenti interni e le forze lavoro locali sono ridotte ai livelli più bassi della gerarchia lavorativa e alla manovalanza.
Senza alcun dubbio quindi se da un lato per merito dell’effetto globale si è verificato un considerevole aumento dell’occupazione, dall’altro però molto frequentemente ci si trova di fronte a seri problemi quali lo sfruttamento dei lavoratori, sottopagati e sottoposti a pesanti turni lavorativi e al lavoro minorile, fin troppo diffuso. Queste grandi aziende risultano di conseguenza ben lontane dall’essere elemento di supporto per lo sviluppo delle economie più deboli, perché sono improntate alla logica dell’espansione e del profitto e non realizzano quel passaggio di tecnologie e conoscenze che potrebbero avviare nei Paesi in via di sviluppo un fondamentale decollo economico.
Se da un lato perciò la globalizzazione ha fatto entrare nel grande flusso degli scambi mondiali circa due miliardi e mezzo di persone appartenenti a nazioni che sopravvivevano con un’economia di “autoconsumo”, dall’altro ha messo in luce grandi squilibri come il divario tra ricchi e poveri. La ricchezza mondiale media, è di certo aumentata e di conseguenza è diminuito anche il numero dei paesi poveri; tuttavia è cresciuto anche il distacco tra i ricchi e coloro che sono rimasti poveri, in quanto è peggiorata la distribuzione della ricchezza. Un altro effetto poi della globalizzazione è l’interdipendenza. Poiché tutto è connesso, la fortuna o sfortuna di ciascuno Stato non dipende più, se non in una piccola percentuale, dalle iniziative che prende, ma è strettamente legata alle sorti di tutti gli altri paesi.
Attualmente in varie parti del mondo è in corso un dibattito sul fenomeno globalizzazione che vede contrapporsi opinioni contrastanti tra i suoi sostenitori, che esaltano appunto le opportunità di sviluppo economico del libero mercato globale, i critici radicali, che denunciano invece la crescente polarizzazione dei capitali e l’instabilità finanziaria, gli scettici, che contestano la retorica del mercato compiutamente globale ed infine i neokeynesiani, che auspicano che la globalizzazione venga guidata politicamente da parte di governi nazionali e organismi internazionali trasparenti e democratici.
Lo slogan della globalizzazione recita:
“Tutto può essere venduto ovunque. Tutto può essere prodotto ovunque”… E se in realtà non fosse così?
Martina Crisicelli
Classe III, Scuola Sec. di 1° grado “Foscolo” di Barcellona P.G.