Il viaggio della speranza…. e delle lacrime
Il viaggio: Il perenne e incessante spostamento di individui sia come singoli, o in gruppo di famiglie affonda le proprie radici in complesse e diverse, quasi opposte, motivazioni che vanno dalla necessità di fuga, ad una più banale attrazione verso il nuovo o alla più illusoria realizzazione di un “un sogno”. Nel corso del XX e del XXI secolo il flusso migratorio non si è praticamente mai arrestato. Tra la fine dell’800 e la prima metà del ‘900, in un lungo lasso di tempo di quasi cento anni, milioni di italiani attraversarono l’oceano Atlantico alla ricerca di un lavoro e di una vita che potesse essere migliore di quella vissuta. Un interminabile viaggio per mare segnava l’inizio di una storia di emigrazione verso un “nuovo mondo”. Da Genova, Napoli, Palermo e Messina, unici quattro porti d’imbarco autorizzati, partivano flussi di anime per le quali la vastità del mare rappresentava quel ponte, quasi un tappeto magico, che avrebbe permesso loro di lasciarsi dietro il natio luogo di sofferenza per approdare nella terra sconosciuta della speranza. Età, cultura, motivazioni influivano sulle sensazioni suscitate dall’attraversamento dell’oceano.
Per alcuni il viaggio diventava un’esperienza indimenticabile, un processo di purificazione prima di entrare in una nuova realtà: “il sentimento di un’assoluta libertà dello spirito […]. Venti giorni di orizzonte senza limiti, di meditazione senza disturbo, di pace senza timore, di ozio senza rimorso. Un lungo volo senza fatica […] davanti a uno spettacolo sublime, verso un mondo sconosciuto, in mezzo a gente che non mi conosce” (De Amicis). Per altri invece, la lunghezza e la monotonia del viaggio, i forti temporali rendevano più intensi il dolore per il distacco e la nostalgia di casa e la partenza diventava la “spartenza” come alcuni chiamavano il momento della partenza dell’emigrante per indicare una partenza dolorosa e violenta. E il viaggio, per loro, diventava l’infinito giardino della sofferenza. “E il viaggio non finiva mai: mare e cielo, cielo e mare, oggi come ieri, domani come oggi, – ancora, – sempre, eternamente” (De Amicis).
Arrivavano così, dopo quasi un mese di viaggio, nella terra della speranza stanchi, provati ma desiderosi di vivere quella nuova vita. Non si aspettavano, però, di essere considerati, da molti, scomodi e indesiderati. Si, perché gli emigrati italiani, soprattutto in America, non erano “graditi”, tanti ebbero difficoltà già appena giunti su quell’isolotto artificiale, Ellis Island, abbandonato dopo la guerra civile americana e destinato ad “Immigration station“, centro di ispezione per i migranti in arrivo negli Stati Uniti e ricordata come laporta d’accesso al “nuovo mondo”.Era l’isola della speranza, ma nota anche come “l’isola delle lacrime” perché in tanti vi conobbero umiliazioni, deportazioni, respingimenti, perché le famiglie qui potevano ricongiungersi oppure essere divise da un crudele destino. Qui, nell’enorme sala, la “Registry room”, le persone attendevano con paura e trepidazione la chiamata degli ispettori per espletare l’ultima parte burocratica e ottenere finalmente il permesso di sbarcare. In quei lunghi interrogatori venivano loro richiesti i dati anagrafici, la professione, la destinazione, la disponibilità di denaro e, non ultimo, l’orientamento politico. In poche ore si decideva il destino di intere famiglie. Ma prima di giungere qui molti di loro erano già stati “segnati”, sottoposti ad un frettoloso esame medico. Chi non risultava idoneo veniva contrassegnato sulla schiena con un gessetto e obbligato a ulteriori accertamenti. Una croce era il simbolo di sospetti problemi mentali, per altri disturbi altri simboli o lettere e per questo esclusi. Spesso venivano immediatamente reimbarcati sulla stessa nave che li aveva portati negli Stati Uniti e che, in base alla legislazione americana, aveva l’obbligo di riportarli nel porto dal quale erano partiti. Molti preferirono suicidarsi, piuttosto che affrontare il ritorno a casa. Le regole di esclusione erano spietate e imponevano che i vecchi, i ciechi, i sordomuti, i deformi e le persone affette da infermità, malattie mentali o contagiose non potessero accedere al suolo americano. Coloro che riuscivano a varcare la “porta” venivano smistati e portati nelle varie città. In tutto ciò il “boss” assumeva un ruolo fondamentale.
Era una figura ambigua che faceva da intermediario tra l’emigrato analfabeta e la società americana, dedito a fornire assistenza agli immigrati gestendo i loro miseri risparmi e che, al contempo, agiva come procacciatore di voti politici. Identificati come “Italians” o “birds of passage”, data la loro abitudine di trasferirsi negli Stati Uniti nei mesi invernali, gli immigrati italiani non erano accolti con entusiasmo, spesso ghettizzati e rilegati nelle loro Little Italies, quartieri nati come risposta alla mancata accettazione ed integrazione da parte degli americani. Non solo ai comuni cittadini, ma anche da importanti figure come il presidente del Museo americano di storia naturale, che durante una conferenza nazionale sull’immigrazione, nel 1924 disse: «Questi immigrati stanno facendo degli Stati Uniti una discarica per cittadini indesiderabili» esplicitando sinteticamente lo spirito di accoglienza della popolazione statunitense. Più tardi il presidente Richard Nixon, in un’intercettazione, disse di loro: “Non sono, ecco… non sono come noi. La differenza sta nell’odore diverso, nell’aspetto diverso, nel modo di agire diverso […]. Il guaio è…. che non ne riesci a trovare uno che sia onesto” riferendosi agli immigrati provenienti dall’Europa meridionale, in particolare agli italiani, per lo più provenienti da Campania e Sicilia. Ma queste non furono le uniche umiliazioni che dovettero subire i nostri emigranti. Infatti dal 1924 al 1965 rimase in vigore la riforma americana sull’immigrazione, che esprimeva una profonda avversione nei confronti di coloro che parlavano una lingua straniera, tanto da arrivare a “classificarli”, pratica non molto diversa dal censimento dei rom proposto oggi da qualcuno e non molto lontano anche dall’attuale insorgere di teorie complottiste che gridano all’invasione degli immigrati e al rimpiazzo della forza lavoro.
Allora fermiamoci a riflettere un attimo e, alla luce di tutto ciò, chiediamoci: quanto è giustificato il sentimento di xenofobia che aleggia e sempre più apertamente si manifesta proprio sul nostro Paese? Ricordiamoci di quello che siamo stati: migranti in paesi stranieri, schiacciati dal dolore dell’abbandono e del distacco, feriti da umiliazioni e condanne. E’ umano infliggere ad altri quanto noi stessi abbiamo patito?
Santi Scarpaci
Classe III, Scuola Sec. di 1° grado “Foscolo” di Barcellona P.G.