Cento lire per un futuro migliore…quando ad emigrare eravamo noi
“Mamma mia dammi cento lire che in America voglio andar…” recitava il ritornello di una famosa ballata popolare mai più dimenticata, ricordo di un tempo in cui quelle “cento lire” promettevano un futuro più felice e non più una vita di sacrifici e povertà.
Oggi un argomento tanto attuale quanto dibattuto, ritornato tristemente alle cronache, è l’emigrazione. Si sente parlare spesso di viaggi disperati in cerca di fortuna, troppe volte purtroppo con finali tragici. Ma quanti ricordano che poco tempo fa ad emigrare eravamo noi, noi italiani? Era il 1873, ma durò fino al 1914 poi l’emigrazione riprese nel dopoguerra. Milioni e milioni di italiani fecero la dura scelta di abbandonare la propria patria per scampare alla fame e alla miseria. Ondate di flussi migratori con destinazione le Americhe o l’Australia, terre che offrivano ottime possibilità lavorative. Un viaggio che avrebbe avuto come destinazione una vita migliore, più prospera e più libera.
Spesso a partire in preda alla disperazione erano intere famiglie, altre volte invece in prossimità del porto si potevano vedere bambini di 12-13 anni, con due valigie di cartone per braccio e una cartella sulle spalle. Pronti ad affrontare una lunga navigazione su “carrette del mare” in balia dell’oceano, costretti alla fame, alla scarsa igiene, alle malattie e in molti casi alla morte. Si calcola che quasi il 20% dei nostri connazionali perì durante le traversate. E chi sopravviveva doveva poi affrontare, prima di giungere a New York, la rigidissima serie di controlli sull’isoletta di Ellis Island, per poi poter toccare finalmente il suolo americano.
E quei pochi che superavano anche questa tappa, dovevano poi affrontare il problema principale: la lotta per non soccombere in un ambiente ostile. Spesso infatti questi viaggi si rivelavano fortunati, ma per uno che ce la faceva mille erano costretti a soccombere. Tutto ciò che avevano a lungo desiderato, per cui avevano lottato e sofferto, “il sogno americano”, rimaneva per molti soltanto una grande illusione. Le loro condizioni non erano mutate e tra i problemi maggiori c’era il modo in cui venivano trattati proprio per essere arrivati da un paese lontano, proprio per essere italiani. E pensare che ai nostri giorni siamo noi ad avere pregiudizi sugli immigrati, che vengono in Italia in cerca di aiuto per scappare dalla guerra e dalla fame! E vi sono discussioni, organizzazioni, eventi mirati proprio alla sensibilizzazione sull’argomento emigrazione, perché bisogna considerare gli altri pari a noi, senza differenze e distinzioni, senza pregiudizi e insulti. Ricordiamo allora che gli “sporchi immigrati” una volta eravamo noi e per le strade si sentivano esclamazioni come “L’America agli americani! Fuori gli stranieri!” e “questi immigrati stanno rendendo l’America una discarica per esseri indesiderabili”, o sulle porte di molti locali si vedevano scritte come “vietato l’ingresso agli italiani e ai cani”. Un tempo quelli a cui veniva negato un alloggio degno di poter essere considerato tale (una stanzetta che a malapena poteva ospitare quattro persone, ma in cui vivevano in dieci e spesso con l’aria irrespirabile) eravamo NOI, noi a cui veniva assegnata una paga misera e inferiore rispetto a quella degli altri, sufficiente a malapena per poter coprire le spese necessarie per sopravvivere, che venivano chiamati “rospi”, “negri”. Erano italiani come noi.
Insomma, una volta gli “immigrati indesiderati” eravamo NOI. Nel 1880 uscì persino un editoriale del New York Times dal titolo “Emigranti indesiderati”, nel quale si definivano gli italiani «promiscui, pigri e criminali: una sporca feccia». Anche la giustizia assecondava il razzismo, rendendo più facile e comune un processo nei confronti di uno straniero rispetto che ad un americano, in quanto si usava dichiarare colpevole l’immigrato anche solo per essere tale.
Due nomi che spiccano in questo contesto e che sono passati alla storia per la loro ingiusta condanna a morte sono quelli di Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti, reputati colpevoli e giustiziati senza prove, ma facilmente accusati in quanto italiani. E, sempre perché italiani, non potevano acquistare in qualsiasi negozio, ma solo in negozi a loro dedicati, gestiti spesso da altri italiani con una buona posizione sociale ed economica, che approfittavano della situazione per truffare e arricchirsi, aumentando i prezzi in maniera vergognosa.
Di sicuro fu un periodo non molto facile per i nostri antenati, che non solo dovettero affrontare i problemi dovuti agli stereotipi e ai pregiudizi, ma dovettero anche accettare che non ci sarebbe stato nessun futuro migliore e ricco.
La cosa che comunque più ci deve far riflettere è che, al giorno d’oggi, frasi e nomignoli come quelli dati una volta ai nostri conterranei sono molto frequenti, e può essere capitato a tutti di aver dato un giudizio errato su una persona o aver fatto qualche commento solo per il suo Paese di provenienza. Cerchiamo allora di abbattere questi muri, di cambiare questa realtà. Com’è possibile che a distanza di cent’anni si verifichino ancora questi atti mirati all’esclusione di chi è considerato “diverso”? Non siamo ancora riusciti a capire che siamo tutti uguali anche se diversi per colore, lingua o cultura? Che bisogna aiutare chi ne ha bisogno accogliendolo e facendolo sentire a proprio agio, come se fosse a casa propria? Ricordiamo il nostro passato, impariamo da esso, e diamo sempre il meglio di noi stessi.
Martina Crisicelli e Rita Chiara Scarpaci
Classe III, Scuola Sec. di 1° grado “Foscolo” di Barcellona P.G.