Carlo Pisacane: il patriota rivoluzionario e idealista
Carlo Pisacane: quando la scuola italiana considerava importante, un po’ più di oggi, la conoscenza della “tradizione risorgimentale”, fin dalle elementari i bambini dovevano studiare i gloriosi nomi degli eroi e dei martiri che combatterono e che morirono per realizzare il grande sogno dell’unificazione del nostro Paese. Diversi furono gli uomini che, accomunati dal desiderio dell’unità d’Italia, si impegnarono con le loro indiscusse virtù a compiere questo importante cambiamento. Tra questi i “tre Grandi”: Giuseppe Mazzini, Giuseppe Garibaldi e Camillo Benso Conte di Cavour, che scrissero con le loro azioni la nostra storia risorgimentale. Ma quello che fu non si sarebbe mai potuto realizzare se, accanto a loro, non si fossero mosse figure altrettanto forti e coraggiose, animate dallo stesso spirito patriottico. Sono tanti i nomi di questi patrioti di cui oggi ci ricordiamo solo superficialmente perché hanno dato, in memoria, il loro nome a una via, perché una scuola o un edificio è intitolato a uno di loro o perché in una piazza c’è un monumento a loro dedicato. Tra i tanti potremmo citare Nino Bixio, Felice Orsini, i fratelli Bandiera, i martiri di Belfiore, Ciro Menotti e tanti altri ancora.
Ma tra questi troviamo anche Carlo Pisacane, l’uomo che nel 1857 tentò di risvegliare la coscienza del Sud con una spedizione militare anti-borbonica.
Nato nel 1818 a Napoli, il giovane Carlo, rimasto senza padre in tenera età, seguì le orme del fratello maggiore Filippo, entrato nella prestigiosa scuola militare della Nunziatella, esperienza questa che forgiò il suo carattere educandolo all’audacia, alla fermezza e alla determinazione, qualità che lo caratterizzeranno e gli permetteranno di agire senza mai indugiare. Svolse per quasi un decennio compiti tecnici nelle province di Napoli, Terra di Lavoro, Principato Citeriore e Ulteriore e negli Abruzzi, mostrando quel suo carattere deciso e privo di conformismo. Nell’ottobre 1846, in seguito ad un agguato, venne accoltellato mentre rientrava a casa. Gravemente ferito, riuscì a sopravvivere e dichiarò di aver subito un assalto da parte di malfattori comuni. Pochi mesi dopo, nel febbraio 1847, invece, fuggì da Napoli sotto falso nome con la donna della sua vita, Enrichetta Di Lorenzo, che per seguirlo abbandonò il marito e tre figli. Pisacane, in una lettera struggente e allo stesso tempo carica di romanticismo, raccontò questa storia d’amore descrivendolo come un grande amore in nome del quale aveva superato anche le nozze della donna. Enrichetta, complessa, fragile e al tempo stesso appassionata, a sua volta, dopo aver sopportato un matrimonio impostole con un uomo che non amava e apprezzava, aveva lasciato tutto per fuggire con quello che considerava il suo vero e unico amore, quello che lei già considerava il suo compagno di vita. La coppia giunse in Inghilterra inseguita dai diplomatici di Ferdinando II, che pretesero la loro espulsione. I due si recarono quindi a Parigi, dove i rappresentanti napoletani ne chiesero l’arresto, ma poi si scoprì che il marito della Di Lorenzo, Dioniso Lazzari, non aveva sporto alcuna denuncia, forse per evitare di venire identificato come il mandante dell’agguato dell’anno prima.
Pisacane viaggiò in lungo e in largo per i paesi Europei in cerca dell’illuminazione politica che tanto desiderava, così si arruolò nell’esercito francese, dove conobbe la tattica della guerriglia. Nel frattempo soffiava aria di rivolta anche in Italia e Pisacane partecipò ai moti milanesi del 1848 contro gli austriaci, e combatté a Roma, dove fondò insieme agli altri patrioti la Repubblica Romana, che difese con tenacia a capo dell’esercito popolare. Scrisse anche molti libri e manoscritti sulle tecniche militari che aveva conosciuto durante i suoi viaggi. Nel 1857, solo tre anni prima della spedizione dei Mille intrapresa da Garibaldi, Carlo Pisacane pensò che fosse il momento giusto per liberare il Sud Italia dalla monarchia borbonica. Un primo tentativo si ebbe il 6 giugno, ma non ebbe successo per assenza di viveri, così Pisacane si travestì da prete e andò a Napoli in cerca di seguaci e armi; ma la caccia non fu fruttuosa. Lui, però non si arrese e il 25 giugno 1857 a Genova si imbarcò sulla nave di linea Genova-Tunisi, sulla quale, insieme a una ventina di fedeli compagni, dopo lunghe insistenze convinse i macchinisti britannici ad aiutarlo. Prima di attaccare attese i rinforzi e le armi che devono arrivare grazie al suo amico Rosolino Pilo, patriota siciliano. Purtroppo, per colpa di una tempesta, il carico d’armi non giunse mai a destinazione e Pisacane si ritrova solo, con pochi compagni e senza armi. Il piano iniziale era quello di accendere il fuoco della rivolta in Sicilia, ma non avendo di che contrastare i Borboni cambiò rotta. Sbarcò allora all’isola di Ponza, dove vi era un carcere borbonico, pieno di prigionieri politici. Attaccò la prigione, liberando circa 300 detenuti e impossessandosi delle armi dei soldati. Con questi 300 uomini in più partì di nuovo per il sud e approdò a Sapri, dove sperava di sollevare il popolo. Ma i soldati borbonici avevano ingannato i contadini della zona dicendo loro che un gruppo di banditi evasi dal carcere stava per invadere il paese. Così i contadini, armati di bastoni e forconi, si aizzarono contro gli uomini di Carlo Pisacane e ne massacrarono gran parte. Lo stesso Pisacane fu costretto a fuggire, ma circondato e minacciato da quegli stessi “italiani” che voleva liberare, deluso e affranto, decise che non gli restava che suicidarsi.
Fu un’impresa disperata, prematura per i tempi, ma nonostante il suo fallimento Pisacane e la sua morte entrarono nell’immaginario collettivo anche grazie ai versi di una celebre poesia di Luigi Mercantini, “La spigolatrice di Sapri”, che nel suo ritornello recita “Eran trecento, eran giovani e forti e sono morti”, e fa poi riferimento al nostro eroe definendolo “un giovine con gli occhi azzurri e coi capelli d’oro”. Questo è ciò che leggiamo nei libri di scuola, questo è ciò che la storia ci racconta di Carlo Pisacane, un uomo forte e determinato spesso però eccessivamente audace, ai limiti dell’esaltazione senza progetti, senza certezze, predestinato alla sconfitta. Ma usciamo allora un po’ dalla retorica risorgimentale e andiamo a leggere con più attenzione nei suoi scritti cosa voleva realmente, cosa sognava di realizzare… Poco prima di partire per la sua spedizione di Sapri, in cui perderà la vita, Pisacane scrisse infatti un testo in cui chiarisce bene le sue intenzioni. Lo scrive, dice, proprio perché sa che “la gente è sempre pronta a applaudire i vincitori e a maledire i vinti”. Sente quindi il bisogno di spiegare il suo folle gesto durante la spedizione, e la scelta del suicidio non deve essere inteso come il triste epilogo di una vita di fallimento, l’estremo atto di un “vinto”, bensì il riscatto di un uomo che aveva creduto e voluto e combattuto per degli ideali e dei progetti che credeva ormai impossibile realizzare. Pisacane sosteneva che per lui Savoia, Austriaci o Borboni erano la stessa cosa: dei conquistatori, degli oppressori del popolo. Gli argomenti che tratta nei suoi testi sono quindi di un’attualità impressionante: la necessità di risvegliare il desiderio dormiente di libertà in tutte le coscienze e la convinzione che l’unità del paese deve essere una conquista e va tutelata. Sono principi che si ripetono in tutte le sue opere e che fanno capire quanto Pisacane sentisse forte il desiderio di unità e libertà come fondamento di progresso e civiltà.
Non dimentichiamo quindi questa sua lezione.
Santi Scarpaci
Classe III, Scuola Sec. di 1° grado “Foscolo” di Barcellona P.G.