L’Alluvione di Giampilieri, dieci anni dopo.
Il primo ottobre del 2009 la parte più a sud del comune di Messina e la confinante Scaletta Zanclea, furono investite da un evento meteorologico di portata smisurata che provocò la cosiddetta “Alluvione di Giampilieri”. Morirono trentasette persone, moltissimi i feriti; immani le devastazioni e migliaia gli sfollati.
A dieci anni da quel giorno, ricordare quanto avvenne non è soltanto un dovere.
Alcuni testimoni oculari che nel pomeriggio del primo ottobre 2009 guardavano verso la costa jonica a sud di Messina, riferirono di un incredibile ammasso nuvoloso nella parte terminale del territorio comunale. Subito dopo, a seguire, udirono dei tuoni fortissimi e videro una serie infinita di lampi. Intorno alle diciotto iniziarono le piogge; durante la serata, la catastrofe. Nella memoria della gente, nelle cronache dei giornali e nei resoconti sul web, quell’evento è oggi ricordato come l’Alluvione di Giampilieri.
Secondo i rilievi pluviometrici, in circa quattro ore di pioggia battente caddero almeno 240 mm di acqua per metro quadrato, investendo nel comune di Messina soprattutto le contrade collinari di Giampilieri, Molino, Altolia e Briga e quelle costiere di Giampilieri Marina, San Paolo, Briga marina e Ponte Schiavo. Colpite in modo più marginale anche Pezzolo, Santo Stefano Briga, Santo Stefano Medio, Santa Margherita e Santa Margherita marina. A sud, oltrepassando i confini messinesi, in quello che sarà poi definito “micro ciclone tropicale”, rientrò anche il comune di Scaletta Zanclea.
Le piogge più esterne arrivarono a Galati marina, Mili marina e fin quasi allo svincolo di Tremestieri a nord. Verso sud, invece, superata Scaletta, i rovesci coinvolsero Guidomandri, ma si arrestarono a Itala marina. La ferrovia, l’autostrada A18 e la Statale 114 per Catania, tutte localizzate nello stretto pianoro tra le colline e la costa dello Jonio, furono interrotte in diversi punti a causa di frane e smottamenti. Le stesse provinciali che salivano ai centri collinari e la strada comunale parallela alla 114, ebbero interruzioni e danni diffusi in prossimità dei valloni minori e dei sottopassi.
L’evento si localizzò in un’area di cinque chilometri lungo la costa e per altri cinque verso l’interno, ma in modo disomogeneo, poiché coinvolse per intero la vallata della fiumara di Giampilieri – dove da mare a monte troviamo, nell’ordine, proprio Giampilieri, Molino e poi Altolia – la parte mediana della fiumara di Briga e le abitazioni più a nord di Scaletta, in particolare intorno allo spazio aperto inteso piazza Don Bosco.
A Giampilieri, in posizione centrale all’abitato, lungo le vie Chiesa e Vallone e verso piazza Pozzo venne giù tutto; a Molino ci furono frane, mentre ad Altolia scomparve piazza Ponte, punto di arrivo della provinciale. A Briga i problemi maggiori si riscontrarono all’inizio dell’abitato, ma l’unico decesso avvenne fuori paese, verso mare, dove una casa isolata fu investita da un costone franato dopo la fine delle piogge.
Le conseguenze più gravi in termini materiali e di vite umane, si ebbero perciò lungo un fronte di appena tre chilometri sul mare e di cinque verso l’interno. I tre abitati della fiumara di Giampilieri rimasero isolati. All’alba del due, alcuni soccorritori della Protezione Civile Regionale e dei Vigili del Fuoco raggiunsero Giampilieri a piedi, risalendo la provinciale bloccata all’innesto con la 114 da un immenso cumulo di detriti che ostruiva un sottopasso ferroviario. A Molino e Altolia arrivarono solo nei giorni successivi.
Il primo centro per il coordinamento dei soccorsi fu creato in Prefettura, ma appena aperta la strada per Giampilieri, nella sede della scuola media poco più esterna all’abitato fu istituita l’UCL (Unità di Crisi Locale). Dopo la predisposizione delle “funzioni di supporto”, sempre nello stesso edificio fu aperto il COA (Centro Operativo Avanzato). La Protezione Civile Nazionale intervenne nell’immediatezza degli eventi. Costante fu la presenza di tutte le forze dell’ordine, soprattutto dei Vigili del Fuoco e dei Carabinieri del comando di stazione di Giampilieri marina che conoscevano il territorio, ma anche dell’Esercito e della Polizia.
Già dopo tre giorni la direzione delle operazioni fu trasferita al Dipartimento Regionale di Protezione Civile della Regione Siciliana. Il COA funzionò senza interruzioni per tutto il tempo necessario. Invece, l’area di ammassamento, cioè il luogo di raccolta degli uomini, dei mezzi e delle attrezzature di soccorso, fu creata a quasi otto chilometri verso Messina, alla palestra di Mili marina, l’edificio pubblico più grande e meglio attrezzabile dell’immediato comprensorio. A tutte le imprese di movimento terra della zona fu richiesto di intervenire con mezzi propri per gli scavi e il trasporto dei detriti. Le Associazioni di Volontari di Protezione Civile di tutta la Sicilia si occuparono, infine, dell’assistenza alla popolazione.
La mattina successiva all’alluvione fu evidente che la tragedia era stata immane. Dopo le prime notizie che davano almeno cinquanta decessi, arrivarono numeri più certi, suddivisi in un primo momento fra salme recuperate e persone che, mancando all’appello, erano state classificate come disperse. Fu una distinzione necessaria, però chi conosce la dinamica dei movimenti del fango, sa che è impossibile sfuggire al passaggio dell’onda di piena in eventi del genere perché, al contrario dei crolli dopo i terremoti, la natura stessa del materiale non consente la creazione di sacche d’aria al suo interno.
I morti totali alla fine furono trentasette, compresa una donna mai identificata. In molti casi Il fango aveva oltrepassato i piani terra, arrivando a lambire il livello dei balconi, sia a Scaletta Zanclea come a Giampilieri dove l’effetto fu amplificato dalla natura dell’abitato storico, costituito da vicoli stretti. In quel caso, per gli scavi vennero utilizzati dei mezzi piccoli oppure si procedette a mano con pale e picconi. Per fortuna – pur nel macabro contrasto del momento – i giorni a seguire furono caratterizzati da un tempo meteorologico favorevole che consentì di intervenire in sicurezza.
Da subito emersero narrazioni strazianti di chi era sopravvissuto o su chi, invece, era morto: uomini, donne e bambini. La storia più nota è quella di Simone Neri, trentenne sottocapo di prima classe della Marina Militare. Nella notte fatidica, a Giampilieri salvò otto persone. Dopo l’ultimo soccorso, però, Simone non riuscì a mettersi in salvo. A memoria di quel gesto gli è stata conferita la medaglia d’oro al valore civile e gli è stata intitolata la scuola media, sede temporanea della direzione dei soccorsi.
Quali furono le cause dell’alluvione? Un incauto intervento a caldo sulle reti televisive dell’allora Direttore della Protezione Civile Nazionale, in altre occasioni ottimo risolutore di problemi, mise in campo il solito abusivismo, peccato originale e carta mai perdente quando si parla del Sud dello Stato Unitario. In effetti, di fronte all’edificio costruito accanto alla fiumara tracimata di piazza Don Bosco a Scaletta – che scomparsi gli argini sembrava quasi ci fosse stato costruito dentro – forse più d’uno l’avrebbe creduto.
Anzi, a dire il vero, lo pensarono pure due commentatori di una tv locale che di fronte alla stessa scena, a poche ore dal disastro e con la pioggia ancora battente, dissero: «hanno costruito dappertutto». L’edificio appariva come se fosse stato bombardato, quasi piegato in due dalla forza dell’acqua e colpito da massi enormi, con dimensioni anche più grandi del metro.
In verità le cause furono molte e, ovviamente, amplificarono i loro effetti a vicenda. L’edificio di Scaletta rimase comunque un fatto isolato. Nell’evidenza era stato costruito sul confine della fiumara, ma a norma di Piano non era abusivo. Sicuramente fu il paradigma di un’idea sbagliata e non più applicabile di uso intensivo del territorio, ma è pur vero che le costruzioni vicine, anch’esse investite dalla piena, erano invece delle case storiche. Alcune furono distrutte, altre fanno ancora parte dell’abitato.
A Giampilieri le cause furono diverse. Chi conosce i luoghi sa che il centro collinare ha un impianto d’origine medievale. È uno dei tanti insediamenti autonomi esterni alla città ma interni ai confini comunali. Con termine storico questi centri si chiamano casali, ma sono diventati villaggi con una brutta denominazione burocratica. Per i loro abitanti sono paesi, delle vere e proprie enclave nel territorio. Una Messina che non è città, con tradizioni diverse dal centro, santi patroni autonomi e persino feste specifiche.
Giampilieri ha sempre avuto una fortissima identità, testimoniata dalle tradizioni, dalla presenza di piccoli negozi, della scuola e addirittura da un accento diverso nella parlata. I suoi abitanti, fino a una cinquantina di anni fa, erano tutti occupati nell’agricoltura, per la raccolta delle arance in loco e nel catanese. Infatti, il territorio intorno al paese, come quelli di Altolia, Molino, Briga e di tutti gli altri casali collinari messinesi, è caratterizzato da muretti a secco e terrazzamenti (ammacìe e ràsuli), un tempo intensamente coltivati. Un insieme ancora visibile e mantenutosi per anni nella sua complessiva integrità.
Venuta meno la convenienza economica nell’uso agricolo dei terrazzamenti, quasi scomparse le maestranze che sapevano fare la manutenzione, complici anche gli incendi dolosi, il sistema ha cominciato a degradare andando incontro al default. Il territorio ne ha pagato le conseguenze. Da una parte, quindi, la negligenza di chi doveva intervenire, dall’altra l’abbandono per necessità economiche e storiche. La natura geologica dei suoli e l’accentuata acclività in rapporto alla brevità delle aste torrentizie hanno incrementato i fenomeni.
I movimenti del terreno sono diventati più visibili, soprattutto nelle zone già naturalmente predisposte. Via Vallone, come dice nell’evidenza il nome, è una strada di discesa dell’acqua proveniente dalle colline che sovrastano Giampilieri. Posto che taglia in due l’abitato e che non è, per natura, un’opera abusiva, fa parte della conformazione dell’impianto urbanistico originario. In quella strada, durante l’alluvione ebbe luogo il disastro: un taglio che catapultò una quantità immane di terra e fango dalla collina alla sottostante fiumara.
Tutto ciò che avvenne quella notte, però, avrebbe avuto effetti meno evidenti o forse più controllabili se la causa scatenante fosse stata di minore entità o se fosse durata di meno. Il 25 ottobre di due anni prima, infatti, un’anteprima analoga nei modi ma contenuta in un tempo di venti minuti, aveva fatto capire cosa sarebbe potuto accadere in casi del genere. In quell’occasione non ci furono morti, ma in dimensioni più piccole si sperimentarono tutti i fenomeni poi esplosi in modo distruttivo nel 2009.
Dieci anni fa, in ogni caso, fu più facile attribuire la colpa immediata all’abusivismo, senza analizzare tutte le varie concause con occhio critico. O meglio, quando si fece, era già troppo tardi. Il marchio dell’infamia era impresso per sempre; perciò al di là della cronaca del primo periodo, le frazioni coinvolte nell’alluvione furono presto dimenticate sui media nazionali. Nessuna chiamata alle armi. Invece, l’idea che quell’evento potesse farci capire che qualcosa cominciava ad accadere nel nostro clima, fu proprio messa da parte.
In verità, con gli occhi del poi sappiamo che avremmo potuto capirlo prima del 2009 e magari prima ancora del 2007. I fenomeni analoghi avvenuti a Genova nel 2011, con sei vittime, e di nuovo nel 2014 con una, ne sono prova, purtroppo ancora a posteriori. I territori d’altronde sono simili: colline poco distanti dal mare e torrenti brevi, con un notevole uso del suolo. Tuttavia, la cronaca degli anni successivi ai tragici fatti di Giampilieri ci dirà che pure in altre aree dello Stato Unitario con diversa conformazione geologica e una cura del territorio presuntivamente più virtuosa, potevano accadere eventi climatici eccezionali e danni di considerevole portata consequenziale.
In Veneto nel 2010 ci furono tre morti e 140 km quadrati di area devastata; di nuovo nel 2018, otto vittime. Cinque tra Marche e Romagna nel 2011; tredici in Lunigiana sempre nel 2011 e sei in Maremma nel 2012. A Livorno nel 2017, ancora otto morti; addirittura diciotto in Sardegna, nel Medio Campidano e a Olbia, nel 2013. Tre a Piacenza nel 2015. Tornando in Sicilia, nove morti si contarono invece a Casteldaccia, provincia di Palermo, nel 2018. Altri episodi di portata minore con una o due vittime, sono spalmati lungo la Penisola nel corso del decennio: un bollettino di guerra esplosivo, congiunto a danni materiali spaventosi.
Sia chiaro: non sto evidenziando una classifica dei decessi per dire chi ha vinto e chi ha perso, né che il male comune possa essere mezzo gaudio, come reciterebbe un noto proverbio, inadeguato all’occasione. Anzi, è proprio l’opposto. Ho troppo rispetto per ogni persona deceduta. Dico invece che l’approccio a questo tipo di eventi dovrebbe essere sempre scientifico e sgombro da pregiudizi a qualsiasi titolo espressi. Nei tempi che stiamo vivendo, anzi, è quasi un dovere ribadirlo con forza ancora maggiore.
Qual è oggi la situazione dei centri che subirono l’alluvione? L’edifico di Scaletta è stato demolito e mai più ricostruito. Alcuni dei fabbricati intorno però sono ancora inagibili. Sulla fiumara sono state erette strutture di protezione contro la caduta dei massi dalla collina e impiantate delle vasche di espansione per le piene. In alcuni punti la strada è stata rialzata. Piazza Ponte ad Altolia ormai è ricostruita. Muri e reti paramassi sono visibili su molti costoni. Argini e briglie hanno incanalato i valloni minori evitando che fossero tombati. Il Vallone della tragica notte di Giampilieri è ora un torrente aperto con muri altissimi a quote diverse. Le case vicine all’alveo, già nella cosiddetta zona rossa, sono state tutte demolite.
I danni interiori di quegli eventi, purtroppo, sono rimasti. La traccia emotiva dell’alluvione è entrata nel dna degli abitanti, soprattutto a Giampilileri. Alcuni di loro si sono trasferiti per sempre, altri hanno riallacciato lentamente la relazione empatica con il loro territorio, attaccandosi ancora una volta alle tradizioni antiche, come il culto per la Madonna delle Grazie. E mai nome fu più indicato come in questo caso.
E la politica? Quella ha l’abitudine di cadere sempre in piedi o di rialzarsi, anche dopo le alluvioni. Diversi anni d’indagini avrebbero definitivamente stabilito che non ebbe alcuna colpa. Almeno, così dicono.
Il mio ricordo
Ci sono sempre delle storie minori in un quadro più grande.
Abito a Briga marina, a tre chilometri da via Vallone. Una settimana prima dell’alluvione avevo lasciato Messina per la mia prima esperienza d’insegnamento fuori. Mi trovavo a Viareggio, in Versilia, provincia di Lucca; seconda chiamata alle cattedre. Presi servizio, trovai subito casa e iniziai in classe.
Approfittando di un buco del mio strano orario di dieci ore, andai a trovare il mio caro amico Franco a San Marcello, sulla montagna pistoiese. Lui era già stato chiamato a insegnare a inizio settembre. Franco aveva casa estiva a Ponte Schiavo, a seicento metri dalla mia. Pure i suoi genitori abitano in zona.
Quando ci salutammo ebbi una strana sensazione, quasi un brivido, che attribuii alle discussioni su quella nuova avventura che ci aveva portato entrambi lontano dall’Isola. Sul treno per Viareggio una grandinata fortissima accentuò il mio senso d’angoscia. Telefonai a casa.
«Com’è il tempo lì?», chiesi a mia moglie.
«Brutto, anzi sta peggiorando. Ero in città con i bambini. Sto tornando», rispose lei.
«Ok, ci sentiamo più tardi allora, quando sarete a casa».
Arrivarono intorno alle 17.00. Dopo li chiamai ancora.
«In questo momento sta piovendo forte, comincia a non vedersi più nulla», mi disse.
«State attenti. Hai chiuso tutto?».
«Sì, lo sto facendo».
Durante un’altra telefonata, un lampo accecante e un tuono fortissimo al seguito sancirono che in quel momento tutto stava accadendo sopra le loro teste.
«Devo chiudere. I bambini sono spaventati e mi sono arrivate pure delle telefonate dall’ufficio. Pare che a Giampilieri quest’acqua stia facendo danni. Ci sarebbero addirittura dei morti. Appena posso, ti richiamo».
Mia moglie lavora al Dipartimento Regionale di Protezione Civile. Nell’immediatezza dei fatti, senza notizie certe, essendo della zona le chiesero se in qualche modo poteva saperne di più. Tutti i collegamenti viari erano saltati e la notte incombeva. Le linee telefoniche funzionavano a tratti. Tramite parenti di parenti fu in grado di riportare qualche notizia su Giampilieri. Finita la pioggia e saputa al sicuro la mia famiglia, la mia strana partecipazione ai fatti, in diretta da lontano, si concluse per forza di cose nel sonno. Lei invece rimase al telefono fino alle quattro.
La mattina del due, prestissimo, andò in ufficio in città, per dare il cambio a chi c’era rimasto tutta la notte. La statale 114 era stracolma di detriti. Quando ci sentimmo dopo scuola mi disse che si stimavano fino a cinquanta morti. Saltai letteralmente dalla sedia.
«Una è sicuramente Agnese! Francesco, è morta Agnese».
«Come Agnese? Quale Agnese?», dissi io.
«Agnese di Briga, mia cugina. È crollato un costone sopra il soggiorno della casa. Gli altri sono tutti vivi».
Aveva marito e due figli della stessa età dei nostri. Non riuscivo a crederci.
Nelle ore successive, quando i contorni degli eventi furono più chiari, la tragedia apparve immane. Avevo iniziato da una settimana appena; non sapevo bene cosa fare. Valutai di abbandonare tutto e di scappare a Messina. Come potevo lavorare con quell’angoscia nell’anima? Le immagini televisive erano scioccanti. Non riconoscevo nulla di quanto vedevo. Piazza Ponte ad Altolia, dove anni prima avevo lavorato con la direzione lavori per la posa della pavimentazione, era letteralmente sparita. Dall’elicottero appariva come una voragine nel terreno. Anche Franco era in angoscia: al momento della pioggia suo padre si era trovato in strada sotto casa ed era stato quasi travolto dall’acqua.
In Passeggiata, luogo principe dello shopping di Viareggio, c’era invece il solito sciamare di gente, complice la bellissima giornata di sole. Il tramonto sul mare, che da quelle parti è così intenso da emozionarti ogni volta che lo vedi, faceva da sfondo agli ultimi acquisti del venerdì. Tutto mi apparve irreale, stavo vivendo in un altro mondo, lontanissimo dalla tragedia. Quando nei telegiornali trasmisero le telefonate d’aiuto alle forze dell’ordine nel momento del disastro, riconobbi la voce di Santo, il marito di Agnese. Sperimentai che il diritto di cronaca spesso entra in modo inutilmente invasivo nella vita delle persone.
Alla fine rimasi a Viareggio. Non fu necessario tornare. Dei figli, per una settimana, si presero cura i nostri amici Roberto e Maria Grazia a casa loro, a poco più di sei chilometri dagli eventi. Mia moglie viveva praticamente confinata al COA, insieme ai suoi colleghi, ai volontari e alle forze dell’ordine. Ci sentivamo ogni giorno prima delle sei per un brevissimo saluto. A volte riusciva a richiamare solo dopo la mezzanotte. In certi casi non ci fu nemmeno una telefonata. Resistette a quello stress infinito una decina di giorni; per tutto il mese successivo si spostò all’area di ammassamento, con orari più umani.
Tornai a casa alla prima data utile. Per un beffardo gioco del destino coincideva con il ponte dei morti. Mi affacciai al terrazzo. Osservai la collina di fronte e una linea bianca che indicava uno scivolamento minimo di detriti. C’era il sole e faceva caldo, tutto appariva tranquillo, ma io per tutto il tempo che rimasi in città non riuscii a stare fermo, come se una forza misteriosa m’imponesse comunque di muovermi. Fu il conto che pagai a me stesso per essere stato, mio malgrado, inutilmente lontano.
Per molti anni a seguire, sempre insegnando fuori, appena il meteo portava pioggia, l’angoscia tornava immediata e aumentavano le telefonate a casa. Ancora adesso, quando scruto il cielo, spero sempre di non trovarmi dalla parte sbagliata della collina.
Dedicato a chi in quei giorni lavorò senza sosta nei soccorsi, a chi perse tutto, a chi non c’è più, a Simone Neri e ad Agnese.
Francesco Galletta
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