Compagni di strada #Settestoriedimemoria_L’Ottava
Diciamolo pure: non esistono solo gli amici per sempre! Ci sono anche i compagni di strada; coloro che per varie ragioni dimorano a tempo nella nostra vita in momenti precisi. E visto che l’esistenza non è mai una, ma tante diverse, ci sta pure che spariscano senza più tornare, se non nella memoria.
Penso che il numero più alto di persone che io abbia mai frequentato continuativamente in vita mia, sia riconducibile al lungo tempo delle medie in estate. Il quartiere era densissimo. Centinaia di persone che riempiono, oggi, l’hard disk della mia memoria emotiva. Di alcuni ritorna un frammento, un sibilo di voce, un difetto, uno sguardo in un’occasione particolare. Per altri, invece, potrei srotolare un dossier, una piccola storia. Ne ho scelti cinque. Insieme disegnano parte di quel mondo remoto: buono e valido, pur nelle sue tante imperfezioni, già per il fatto di esserci stato. E di essere – credo abbastanza giustamente – ormai scomparso.
M. era agile come un gatto e giocava bene a calcio, ma non con noi; stava in una squadra. Non frequentava il quartiere. Lo ricordo ritirato per gli allenamenti. Gli invidiavo la verticale di spalle, dritta contro il muro – che a me non riusciva – e l’impresona di quando entrò da una finestra al primo piano con una scala a pioli per aprire casa a una vicina rimasta fuori. Da lui imparai la giravolta indietro, poggiato con le mani alla ringhiera di due rampe successive di scale al piano terra. Volendo fare di meglio, però, mi reinventai la stessa mossa a un pianerottolo intermedio, ribaltandomi da due metri e mezzo d’altezza. Un’operazione pericolosissima, ma se la sto raccontando dico solo che il mio destino era già scritto in modo diverso.
C. era alta; più della media; più di me. Gambe lunghissime, labbra ben disegnate. Velocissima. Non era un’amica, perché con una “femmina” non potevi esserlo. Non apparteneva al quartiere. Veniva ogni tanto a trovare sua nonna. Tutti giocavamo con tutti a quell’età, ingrossando la compagnia. Anch’io ero veloce. Una mattina scattò la sfida: «Partenza, tocchiamo il muro e si ritorna». Fu un testa a testa: io mulinando gambe e braccia, lei leggerissima come una gazzella. La guardai per tutto il tempo della corsa. Non riuscii a staccarla di un millimetro e più la guardavo, peggio era. Vinse con un balzo finale furbissimo. A distanza di tanti anni potrei cavarmela dicendo di aver imparato, da quell’episodio, che a fare la gara sugli altri si perde sempre. Oppure, senza fare troppa filosofia, dico solo che C. era più veloce di me. Punto.
F. puzzava. Puzzavano lui, la sorella media e il fratello piccolo; puzzavano la madre e il cane. Per caso entrai una volta in casa loro: ovviamente puzzava pure quella. La sorella più grande, invece, no. Non ho mai capito perché. Erano tutti abbastanza infrequentabili nell’insieme e in effetti solo F., sempre all’esterno, giocava con gli altri, soprattutto a calcio, dove tutti – comunque – sudavamo alla grande. In un quartiere come il mio, dove coesistevano il meglio e il peggio del visibile e fra i tantissimi che eravamo, figli del baby boom, F. poteva persino mimetizzarsi. Devo dire, comunque, che nella mia vita ho provato più disagio ad avvicinare alcuni figli profumati di affermati professionisti, che la puzza ce l’avevano interiore, piuttosto che quelli come F.
Con G., invece, ci frequentammo stretti. Ci furono tra noi filmini in super 8 vestiti da cowboy a carnevale e giornate di mare supplicando le nostre mamme di farci entrare in acqua dopo il panino di mezza mattina. A quel tempo avevamo la stessa altezza, ma fisicamente nascevamo opposti. Io bianco latte, secchissimo, capelli lisci e lunghi, tendenti al rosso; lui bruno, olivastro, capelli corti, tre zuave di panza così evidenti che i risvolti inferiori non gli si abbronzavano mai. Io correvo, mi arrampicavo e giocavo a calcio, lui mangiava tanto e non si muoveva proprio; ma eravamo amici.
La sua “dieta” prevedeva piattoni di pasta e grossi panini con un’improbabile mortadella cecosglovacca (la chiamava così). Un giorno però, inaspettatamente, mi propose di allenarci insieme: «Per scalare di peso», mi disse. «Ma ci dobbiamo svegliare presto, altrimenti moriamo di caldo». Era estate, ovviamente. Detto, fatto: sveglia sei e mezzo. Alle sette eravamo già in strada. Non scorderò mai quell’allenamento: corremmo esattamente per sei minuti. Da casa facemmo un percorso che Google Maps misura oggi in un chilometro e duecento metri. Un passo dopo c’era un bar. «Mangiamo qualcosa» – mi disse – «se no ci sentiamo male». Pagò lui: granita caffè con panna e brioche. Tornammo camminando. La volta dopo, forte dell’esperienza, lo feci arrivare fino alla Stazione Marittima: due chilometri e novecento metri di sofferenza. Non ricordo se mangiammo. So solo che l’allenamento fini lì. G. non giocava neanche a calcio. Era proprio negato.
P., invece, non frequentava con tutti nel quartiere, solo con chi conosceva meglio. Un pomeriggio s’infilò per sbaglio un amo nell’ultimo dito di un piede e cercò di toglierlo in vari modi. Non vado oltre. A proposito di ami, un giorno andammo a pescare al porto. Lo facevano in tanti all’epoca. Lui aveva tutta l’attrezzatura, io nulla perché non l’avevo mai fatto. Pensò pure per me, però il verme mi fece subito schifo e la mia pazienza si rivelò limitatissima. In breve, non pescai nulla e, se non ricordo male, neanche lui. Fu la prima e ultima volta che mi dedicai alla pesca, un’attività assolutamente distante dai miei interessi.
Per altri versi, invece, in un tardissimo pomeriggio estivo con le ombre serali incombenti, P. illuminò me e altri ragazzi, messi a giro intorno a lui, su un tema molto più interessante: ci descrisse, infatti, ogni possibile malattia a trasmissione sessuale nei termini siciliani. Benché lui si atteggiasse a praticone sull’argomento, era ovvio che avesse solo una conoscenza indiretta, derivata forse da un cugino più grande. Lo ascoltammo in religioso silenzio. In quel momento, nel bel mezzo delle medie, non ero in grado di valutare quanto stesse affermando, ma le sue parole furono comunque un manuale, seppur rozzo, di formazione.
Con P., G. e altri ancora, ma non con M. né con F. o tantomeno C., ogni tanto giocavamo al pugilato. Ci coprivamo le mani con delle pezze, simulando i guantoni, poi sfruttando la pianta quadrata di un androne come fosse un ring, facevamo il match. Ci colpivamo solo sulla spalla; pochissimi e rallentati i colpi alla figura. Niente in faccia: non c’era ancora Fight Club! Non giocavamo per farci male. Tuttavia, quelle attività non piacquero ad alcuni genitori, che ci dissero di smetterla. La più agitata era la mamma di P., che in modo brusco ci lavò d’insulti – come diciamo noi – dalla testa ai piedi. Non voleva assolutamente che suo figlio subisse dei guai da quei giochi violenti. Ce ne rammaricammo, ma ubbidimmo. In effetti, poteva starci.
Tuttavia, diverso tempo dopo andai a fare una partita a tappi dei giocatori a casa di P., in giardino. Non ho mai capito quale fosse stato il motivo scatenante, ma a un certo punto arrivò il padre e lo riempì di botte. Gliene diede tante, ma così tante con schiaffi pure in testa, che il poverino rimase mezzo morto a terra accanto alle piante. Il padre era un tipo secco col naso aquilino e gli occhiali sottili. Vestiva in modo sciatto e camminava dinoccolato, con il braccio destro leggermente sghembo sull’esterno. Non avevo mai visto scene del genere e la mia presenza, evidentemente inutile, non fermò per niente quell’assurdo pestaggio.
Dopo quel triste pomeriggio riportai il nostro ingenuo pugilato al rango di nobilissima arte e forse cominciai a capirne un po’ meno del mondo adulto.
EX POST
Gli strumenti social, con cui ho sviluppato ormai un rapporto di necessaria coesistenza, possono essere un mezzo di comunicazione buono o cattivo, secondo gli usi. Possono produrre mostri, ma anche darci delle informazioni veloci – non per forza veritiere – sulle persone.
M., cui evidentemente non interessa molto la social privacy, o magari non sa gestirla al meglio, è emigrato al Nord. È un agente penitenziario. Si occupa anche di calcio giovanile. È la versione più paffuta del se stesso dei tempi che furono. Pur non avendo richiesto la sua “amicizia virtuale” (né avere intenzione di farlo) riesco quasi a disegnare, attraverso la Rete, una breve storia della sua vita. Mi basta così.
C. è meno open sui social. Ama i gatti e ha mantenuto il fisico, pur lasciando qualche concessione in viso alle ingiurie del tempo. Non dichiara alcun mestiere ma pare cucini bene o almeno così fa intendere: seguire “La prova del cuoco” in tv non è riscontro sufficiente, benché i piatti di pesce pubblicati siano più di un indizio. Arredamento davvero pessimo, se è quello di casa sua. Guida una Cinquecento X rosso fuoco; sempre che non sia un fake anche questo. Anch’io, in fondo, su FB mi dichiaro “disoccupato e inventore di storie inutili”.
G. non lo persi di vista subito. Andai al matrimonio della sorella che ero appena entrato ad Architettura: ultimo scampolo prima di un vuoto ventennale. Lo rividi poi una sola volta sull’aliscafo per le Eolie durante la mia prima, brevissima, supplenza. Linea finalmente decente; in viso un po’ scavato. Ci tenne a dirmi delle abitudini, a suo dire abbastanza libertine, delle donne isolane. Sorrisi e presi atto. Non avevo, e non ho, contezza su quanto dichiarava. Di lui sapevo già che aveva fatto un matrimonio “kitschissimo”, con una cerimonia riportata, all’epoca, persino sul giornale cittadino. La sfumo qua e lascio il mistero.
Di P. non c’è proprio traccia sui social, oppure è irriconoscibile in foto. Lavorò per qualche tempo nei locali: me lo ritrovavo davanti nei momenti più inaspettati. Poi il nulla. Il nostro ultimo giorno fu quando spuntò al seggio dov’ero scrutatore. Prima di votare rivolse uno sguardo, che diceva più delle parole, a una delle colleghe. Mi chiese se era mia amica. «No» – gli risposi – «l’ho vista qua ieri per la prima volta». Da tempo, evidentemente, non era più un teorico finto praticone su certi argomenti. Era passato alla pratica vera.
Invece, non so proprio che fine abbia fatto F.; non ne ho saputo più niente. Si sarà dileguato nell’etere.
Francesco Galletta