Alièmi, l’urlo del quartiere #Settestoriedimemoria_07
Lo potevi sentire di pomeriggio, nelle lunghe giornate d’estate; all’ora in cui il sole non era più così alto da bruciarti la pelle e il caldo appiccicoso lasciava spazio ai primi refoli. Si alzava lunghissimo; cadenzato nelle vocali. La “è” pareva non finisse mai. Arrivava a tutti nel quartiere. Impossibile sfuggirgli: era Alièmi, l’urlo.
Ci sono codici verbali o gestuali che sopravvivono alle generazioni. A volte li ritrovi in luoghi lontanissimi dal tuo e ti chiedi come abbiano fatto a spostarsi o chi ne sia stato il messaggero. Altri, invece, che muoiono con l’ultima persona che li ha usati, solo perché quell’ultimo è cresciuto, è diventato grande.
Esistono parole senza inventore, che dai per scontate solo perché tutti le stanno usando. Le parole che anche tu utilizzerai per appartenere al gruppo, per non essere l’escluso della comunità. Non ti chiederai chi diavolo le abbia mai tirate fuori per primo, né da dove. È la cosa meno importante. Esistono. Punto.
Alièmi era un codice, un urlo ripetuto più volte con voce da banniàta; era una sirena, lo sparo dello starter alla partenza di una gara. Era l’inizio. Quando si sentiva, nella nostra parte di quartiere tutti sapevano che stava per cominciare un gioco ben preciso. Solo molti anni dopo, da cresciutello, capii che giocare ad Alièmi era – per tutto il resto del mondo – né più e né meno che l’equivalente di Guardie e Ladri.
Casa-base era la prigione, posta alle palazzine nuove nel campo di bocce, una pertinenza residuale tra due condomini che non conduceva a nulla se non al cancello secondario di una casa unifamiliare scampata alle costruzioni. Al campo di bocce, in ogni caso, non c’erano le bocce, ma si giocava a ‘cciappe, i pezzi di marmo che venivano lanciati per conquistare il pallino con le figurine dei calciatori sotto.
La formazione delle squadre era il momento cruciale. Due capitani sceglievano a turno gli altri dopo il tocco. Chi lo vinceva, prendeva sempre – dieci volte su dieci – Pippo P.. Bisogna precisare che Pippo P. era valutato doppio rispetto agli altri, tanto era forte, perciò il secondo ne poteva avere poi due, di diritto. Per il resto, invece, lisci fino all’ultimo, uno via l’altro, ovviamente dal più valido al più scarso.
Pippo P. era magrissimo ed era bravo non solo ad alièmi, ma anche a calcio, perciò veniva scelto sempre per primo e quando per un motivo qualsiasi non c’era, la comunità si smarriva. Riuniva due doti: il tocco di palla e la velocità. Sapeva fintare e scartare l’avversario. Praticamente immarcabile e imprendibile.
Ora, però, serve una necessaria digressione. Una mattina, che non so collocare nel tempo lunghissimo delle medie, nell’area chiusa dove giocavamo a calcio si svolse la gara che decretò per sempre la classifica dei più veloci. C’erano Pippo P., Pippo C., Pino inteso Pinuccio, Marino e Cecchetti il rosso. Per la vittoria non ci fu storia: Pippo P. alla grande. Gli altri, incollati. I più videro un capello tra Pinuccio e Cecchetti, su Pippo C.; Marino – che si diceva avesse “solo lo scatto” – arrivò, in effetti, dietro tutti.
Ad alièmi, però non serviva solo essere veloci per sfuggire alla guardia o, viceversa, per catturare il ladro. Ci voleva anche astuzia, senso della posizione e conoscenza dei posti appropriati dove nascondersi. Ognuno, insomma, si giocava la sua carta. Perciò, avere Pippo P. in squadra non significava, per forza, vittoria certa.
L’effetto sorpresa era spesso determinante. Quello che Cecchetti seppe mettere in campo un giorno, con un agguato improvviso da dietro una macchina, per catturare Pippo P.. Invece, Pippo C. per quanto veloce, a calcio stava sempre in porta. Anzi era “il portiere”. Lo ricordo in guanti, ginocchiere e tuta. Balzava e si accovacciava sulla palla proprio come un gatto. Magro e tentacolare; quasi insuperabile. Gran fisico.
Pinuccio, invece, era piccolo di statura, ma aveva dalla sua il ritmo delle gambe, mulinate alla grande. A calcio non era certo fra i migliori; solo in velocità. Cecchetti doveva il soprannome alla somiglianza con un personaggio lentigginoso e rosso di capelli di una serie televisiva che all’epoca guardavano tutti. Forte, ma un po’ legnoso a calcio; buona velocità e fisico promettente; brutto carattere.
Marino, invece, faceva Marino di cognome. Era alto e magro e aveva la nonna nel quartiere. Abitava in un posto per noi lontanissimo; uno di quei “complessi” nuovi, recintati, enormi, che la politica urbanistica del momento faceva passare per luoghi santi di delizia.
Rientro dalla lunga digressione. Quando le squadre erano pronte, i ladri si dileguavano nel quartiere e le guardie aspettavano al campo di bocce. L’attesa era per alièmi. Non c’era un tempo fissato. Al momento in cui i fuggitivi si ritenevano al sicuro nei loro cento nascondigli, scattava il segnale. Era l’inizio.
Il delegato della squadra dei ladri intonava, allora, la cantilena. A voce altissima, amplificata dalle mani a megafono intorno alla bocca, dal suo nascondiglio – oppure sfrontatamente dalla strada – ripeteva l’urlo di battaglia. Nella mia tonalità equivale alla sequenza Lab, Lab, Fa, Mib, con la “è” in Fa che non finiva mai.
A quel punto, citando una frase famosa, si scatenava l’inferno, con le guardie che cercavano di scovare e catturare i ladri. Va precisato, però, che c’erano dei limiti precisi all’area di gioco: non si poteva scendere più in là della mia strada, verso i “Grandi Magazzini” che chiudevano il quartiere a valle; era vietato andare in “campagna” oppure oltrepassare la scorciatoia del campo delle canne che portava al Gran Camposanto.
Serve ancora un’altra digressione. S’intendeva “campagna” tutta l’area collinare, in parte terrazzata che chiudeva a emiciclo l’Istituto Superiore, confine a monte del quartiere. Si accedeva da poco prima della scuola, oltre l’ultima palazzina. Una scorciatoia in forte pendenza puntava all’albero di carrube, che fungeva da riferimento. Dopo era tutto un susseguirsi di ràsule che imparavi a seguire a memoria, col tempo.
Volendo, potevi anche circumnavigare il perimetro della scuola camminando in bilico sull’altissimo muro di contenimento del terreno che la delimitava ed entrare in campagna più a monte. Non era difficile, solo pericolosissimo ma lo facevamo tutti. Così come calarsi dal primo muro, all’ingresso della campagna o da quello ancora più alto, ma con un favorevole (seppur minimo) ringrosso intermedio, che consentiva di scendere diretti dalla stessa campagna all’area della “fucilazione”, quasi vicino al campo di bocce.
Tranquilli, non c’era nessuna violenza. Ancora una volta, si trattava di un gioco che consisteva nel colpire i “prigionieri” – posti su un altissimo zoccolo in cemento armato dello stesso enorme muro – con un pallone lanciato con le mani dal “fucilatore”. Quando tutti “morivano”, quello vinceva. E via a girare, a turno.
Seconda digressione conclusa. Rientro. Ovviamente ad alièmi i ladri perdevano se venivano tutti presi dalle guardie. Altrimenti si procedeva ad libitum, fino a quando quelle dichiaravano l’impossibilità a ultimare la cattura oppure perché scendeva la sera e non si vedeva più nulla. Il ruolo delle guardie, comunque, non era facile perché alcuni fattori giocavano – come sempre – a favore dei ladri.
Uno di questi era la “scossa”. Come in molti giochi di ruolo, chi stava fuori poteva liberare i prigionieri. Capitava persino che l’ultimo ladro libero facesse uscire di nuovo tutti quanti. Bastava, per esempio, che ognuno si prendesse per mano e che uno soltanto sfiorasse il liberatore. La “scossa” estendeva la libertà al resto dei prigionieri. Il gioco perciò, a volte, non finiva mai. Durava tutto il pomeriggio, appunto fino a sera.
Il tocco di libertà poteva arrivare pure col trucco. Il cancello posteriore al campo di bocce dava, infatti, come ho già detto, su una casa unifamiliare. In realtà, sul suo spazio esterno semi pubblico, stretto e lungo come un corridoio. Qualcuno, un giorno, s’inventò di passare da lì, dal retro, per liberare i prigionieri. La cosa fu ritenuta valida. Il primo toccato ne liberava, poi, quanti più possibile dentro la prigione, anche con la scossa.
Vedevi, quindi, quegli invasati sfuggire in qualsiasi modo alle guardie che, entrando in prigione, provavano invece a riprenderli. Era il massimo della confusione. Forse il momento migliore del gioco. Per il resto ci potevano essere, per i ladri, anche lunghe e silenziose attese nei nascondigli più remoti oppure, per le guardie ricerche infruttuose piene di domande. D’altronde i cortili avevano tutti accesso libero a quel tempo e i posti in cui eclissarsi erano davvero tanti.
Quel mondo, con tutto il resto che si portava dietro, durò il tempo interminabile delle medie. Ha finito di esistere, per me, nel passaggio alle superiori. Andare al liceo fu come trasferirsi in un’altra città, in un altro mondo. Facce nuove e stili di vita diversi, scenari che si aprivano inaspettati; in più l’idea, che non mi ha mai abbandonato, che la parte migliore del tutto fosse sempre quella che doveva ancora arrivare.
Perciò misi Alièmi in un deposito, insieme alla scossa, alla prigione e a tutto quanto era stato parte di quel periodo, dimenticandomene. Ma si sa, le cose tornano da sole, prima o poi. È solo questione di tempo.
EPILOGO
Ho scritto “Alièmi” su Google. Risultati: zero! Il motore di ricerca mi chiedeva se, per caso, stessi cercando “alieni”. Mi sono sentito io l’alieno. Riprovando su link stranieri, sono venuti fuori un videogioco e un profilo social con la parola spezzata Alì ed Emi. Non ho insistito oltre la prima schermata. Non sarebbe servito.
Alièmi resterà per sempre un urlo che fu termine per pochi. Un codice venuto da chissà dove e poi sparito, circoscritto al tempo di una generazione e ai duecentonovanta metri che portano, ancora oggi, dal Grande Magazzino alla “campagna”. Risalito alla mia memoria, improvvisamente, una mattina d’estate mentre stavo al mare, con i piedi a mollo e la testa che “firriàva” al sole.
Il grande “muro della fucilazione” è sempre lì. La prima parte della campagna – già sbancata in una di quelle estati antiche – fu edificata soltanto dieci anni dopo, per un lungo fermo di cantiere. La scuola, vivaddio, ora è inaccessibile. Il campo di bocce non l’ho più guardato. Ci sono pochi ragazzini in giro e moltissime auto.
Non so che fine abbia fatto Pippo P.; un viso paffuto con tanti capelli brizzolati me lo potrebbe ricordare su Facebook, ma nient’altro. Pippo C., invece, l’ho rivisto qualche volta, molti anni dopo. Aveva perso tutti i capelli ma il fisico era sempre quello. L’ho individuato subito sui social. Cranio a zero, ovviamente, però – beato lui – ancora in forma.
Pino l’ho rivisto in più occasioni, perché “buttandosi nella politica locale” con discreti risultati è sempre stato visibile. È rimasto piccolino, ma con tanta grinta. Di Marino non ho saputo più nulla. Il rosso di Cecchetti, invece, non c’è più. Al contrario di Pinuccio, dicono sia diventato alto. Ogni tanto lo vedi al quartiere, ma sembra Salvatore di “Cinema Paradiso”, quando rientra a Giancaldo dopo la morte di Alfredo.
Nuovi codici si sono creati in quelle due lunghe strade rettilinee che salgono a monte e nelle ortogonali che le tagliano da sud a nord. Codici impossibili da decifrare per chiunque sia stato d’altri tempi, anzi persino invisibili agli occhi di chi non vive più in quel mondo cambiato. Nessun rimpianto, però. Non è nient’altro che il destino delle cose che si trasformano. Solo la vita che si rinnova.
A proposito, ovviamente Cecchetti ero io.
Francesco Galletta