L’Odissea
PRESENTAZIONE
L’Odissea è uno dei due grandi poemi epici greci attribuiti all’opera del poeta Omero. Narra delle vicende dell’eroe Ulisse (o Odisseo, da cui il nome del poema), re di Itaca, dopo la fine della Guerra di Troia, narrata nell’Iliade. Insieme a quest’ultima, rappresenta uno dei testi fondamentali della cultura classica occidentale, ancora oggi letto e studiato in tutto il mondo nelle sue numerose traduzioni.
IL CAVALLO DI LEGNO
Il racconto ha inizio dalla guerra di Troia, vinta dai Greci sui Troiani grazie all’astuzia di Ulisse. Egli infatti fa nascondere dentro un grande cavallo di legno, donato ai Troiani in segno di tregua, i migliori soldati, che nella notte, mentre i Troiani festeggiavano la fine della guerra, escono dal nascondiglio ed aprono le porte della città all’esercito Greco, che mette a ferro e fuoco tutta Troia.
Il viaggio
Prima tappa: I CICONI
Appena finita la guerra Ulisse si diresse anzitutto verso Ismara, capitale del regno dei Ciconi, per cercare le provviste necessarie per il viaggio. Il re e i suoi uomini saccheggiarono e distrussero la città, uccidendo molti guerrieri Ciconi e facendo prigioniere le loro donne. Ulisse fece irruzione anche nella casa di un vecchio di nome Marone, ma dopo essersi reso conto che si trattava di un sacerdote evitò di ucciderlo. Marone per sdebitarsi regalò a Ulisse oggetti preziosi e dodici anfore di vino; con un otre di questo vino l’eroe greco avrebbe in seguito ubriacato il ciclope Polifemo. Finito il saccheggio, Ulisse disse ai suoi uomini di affrettarsi, ma essi si fermarono a consumare le carni e il vino di cui avevano fatto bottino e furono sorpresi da un esercito Cicone, radunatosi per contrattaccare. Le donne dei Ciconi poterono così mettersi in salvo, mentre Odisseo fu costretto a salpare dopo aver perso sei uomini per ognuna delle sue dodici navi.
Seconda tappa: i lotofagi
Vi furono 9 giorni di tempesta e la corrente spinse Ulisse ed i suoi nei pressi di Capo Malea, dove approdarono. Lì vivevano i Lotofagi (cioè mangiatori di loto), che li accolsero e offrirono loro il dolce frutto del loto, unico loro alimento, che però aveva la caratteristica di far perdere la memoria, per cui Ulisse dovette imbarcarli a forza e prendere subito il largo per evitare che tutto l’equipaggio, cibandosi di loto, dimenticasse la patria e volesse fermarsi in quella terra (nell’Odissea si dice fosse su un’isola).
Terza tappa: i ciclopi
Descritti da Omero come creature mostruose con un occhio solo, i Ciclopi sono giganti che si cibano di carne umana. Nell’Odissea Omero ne descrive solo uno: Polifemo. Durante lo scontro con Polifemo, vennero divorati sei uomini dei dodici scelti da Ulisse per esplorare l’isola. Intrappolati nella caverna del Ciclope, il cui ingresso era bloccato da un masso enorme, Ulisse usò la sua astuzia per fuggire. Prima offrì del vino dolcissimo e molto forte al Ciclope, per farlo cadere in un sonno profondo. Polifemo gradì così tanto il vino che promise a Ulisse un dono, chiedendogli però il suo nome. Ulisse, astutamente, gli rispose allora di chiamarsi “Nessuno”. “E io mangerò per ultimo Nessuno”, fu il dono del ciclope. Dopodiché Polifemo si addormentò profondamente, stordito dal vino. Qui Ulisse mise in atto la seconda parte del suo piano. Egli infatti, insieme ai suoi compagni, aveva preparato un bastone di notevoli dimensioni ricavato da un ulivo che una volta arroventato fu piantato nell’occhio del Ciclope dormiente dai Greci. Polifemo urlò così forte da destare dal sonno i ciclopi suoi fratelli. Essi corsero allora alla porta della sua grotta mentre Ulisse e i suoi compagni si nascondevano vicino al gregge del ciclope Polifemo. I ciclopi chiesero a Polifemo perché avesse urlato così forte e perché stesse invocando aiuto, ed egli rispose loro che “Nessuno” stava cercando di ucciderlo. I ciclopi pensarono, quindi, che fosse ubriaco e lo lasciarono nel suo dolore. La mattina dopo, mentre Polifemo faceva uscire il suo gregge per liberarlo, dato che lui non sarebbe stato più in grado di guidarlo, Ulisse e i suoi soldati scapparono grazie ad un altro abile stratagemma, che faceva parte della terza parte del suo piano. Ognuno di loro si aggrappò infatti al vello del ventre di una pecora per sfuggire al tocco di Polifemo, poiché il Ciclope si era posto davanti alla porta della caverna, tastando ogni pecora in uscita per impedire ai Greci di fuggire. Ulisse, ultimo ad uscire dalla grotta, lo fece aggrappato all’ariete più grande, il preferito del Ciclope.
Accortosi della fuga dei Greci, Polifemo salì su un promontorio, da dove, alla cieca, iniziò a scagliare enormi massi in mare, nel tentativo di affondare la nave. Qui Ulisse commise un errore. All’ennesimo tiro a vuoto del Gigante, Ulisse, ridendo, ebbe a gridare: «Se qualcuno ti chiederà chi ti ha accecato, rispondi che non fu Nessuno, ma Ulisse d’Itaca!», rivelando così il suo vero nome. Polifemo, venuto allora a conoscenza dell’identità del Greco, lo maledisse, invocando il padre suo Poseidone e pregandolo di non farlo mai ritornare in patria.
Quarta tappa: eolo
Dopo la fuga dai Ciclopi, Ulisse si ritrovò davanti l’isola del Dio del vento, Eolo (da cui proviene il nome Eolie). Egli accolse Ulisse e, dopo averlo ascoltato, lo aiutò rinchiudendo tutti i venti che avrebbero ostacolato il ritorno a Itaca e ne liberò solo uno: Zefiro. Ulisse avrebbe dovuto liberare i venti contrari appena arrivati a Itaca. Ma prima Eolo fece una domanda a Ulisse:” Io ti consegnerò questi venti solo se tu mi giurerai che non hai mai offeso il mio Dio Poseidone, altrimenti non sono autorizzato a darteli” e Ulisse disse:” Giuro che non ho mai offeso nella mia vita il Dio Poseidone” e a quel punto Eolo rilasciò i venti in un baule. Quando erano quasi arrivati a Itaca, alcuni compagni di Ulisse, incuriositi da quella cassa, pensando che al suo interno vi fosse del vino, la aprirono e tutti i venti uscirono, allontanando l’imbarcazione di Odisseo da Itaca e riportandola dall’altra parte del Mediterraneo.
Quinta tappa: la terra dei lestrigoni
La terra dei Lestrigoni si trova nella Sardegna nord-orientale, nella zona della Costa Smeralda. Essi sono giganti antropofagi che oltre a uccidere molti compagni di Ulisse con degli spiedini, distruggono tutte le navi, tranne quella di Odisseo che era rimasta nel porto.
Settima tappa: Circe
Ulisse, dopo aver visitato la terra dei Lestrigoni, risalendo la costa italiana, giunge all’isola di Eea, coperta da fitta vegetazione, che gli sembra disabitata e che esplora con parte del suo equipaggio, sotto la guida di Euriloco. Il Dio Hermes aveva avvisato a Ulisse che si sarebbero ritrovati davanti il palazzo della maga Circe e gli aveva consigliato di mangiare un’erba speciale, che lo avrebbe reso immune alle pozioni di Circe. E così fu. Ulisse e i suoi uomini si ritrovarono di fronte il palazzo di Circe, all’esterno del quale si potevano scorgere animali selvatici. Tutti gli uomini, con l’eccezione di Euriloco, entrano nel palazzo e vengono bene accolti dalla padrona. Gli uomini vengono invitati a partecipare a un banchetto ma, non appena assaggiate le vivande, vengono trasformati in maiali, leoni, cani, a seconda del proprio carattere e della propria natura. Subito dopo, Circe li spinge verso le stalle e li rinchiude. Ulisse non se ne accorge subito, solo dopo li vide. Ma Circe si era innamorata di Ulisse, così lo trattenne lì per un anno finche non si accorge che lui non la ama. Allora liberò i compagni di Ulisse e gli diede un’avvertenza: nel suo cammino avrebbe incontrato le sirene, che con il loro canto ipnotizzavano la gente. Per non subire questo effetto si sarebbero dovuti otturare le orecchie con della cera.
Ottava tappa: le sirene
Dopo aver incontrato Circe, Ulisse si dovette scontrare, come preannunciato dalla maga, con le sirene. Otturò le orecchie ai suoi compagni e dopo si fece legare all’albero maestro della nave e disse:” Qualunque cosa io vi ordini di fare, voi non la eseguite, anzi stringete ancora di più la corda. Secondo la leggenda, le due sirene che tentarono Odisseo, si uccisero perché non erano riuscite a trattenere l’eroe. Una di esse, Partenope, si fermò sulla spiaggia di ciò che diverrà la città di Napoli e a lei vennero dedicati giochi annuali, le Lampadedromie. Omero però non descrisse l’aspetto fisico delle sirene.
Nona tappa: averno, il regno dei morti
L’ingresso all’Ade si trovava nel paese dei Cimmeri, al confine dell’Oceano, e proprio in questa regione remota Odisseo dovette recarsi per discendere all’Ade e incontrare l’ombra dell’indovino Tiresia. Per accedervi bisognava superare prima Cerbero, poi attraversare l’Acheronte versando un obolo al terribile Caronte e raggiungere i tre giudici Minosse, Eaco e Radamanto, i quali emettevano il loro verdetto. Nell’Ade vi erano cinque fiumi: Stige, Cocito, Acheronte, Flegetonte e Lete, l’acqua di quest’ultimo aveva la caratteristica di far perdere la memoria a chi la beveva. Le anime dei morti, ormai purificate dai peccati, venivano trasportate da vortici di fuoco e poggiate al suolo. Qui sceglievano la loro prossima vita, e successivamente bevevano l’acqua del fiume Lete. Ulisse, avendo molto patito nella vita precedente per l’onere di essere re, scelse una vita semplice, agricola, che non avrebbe mai procurato fastidi. Agamennone, stanco per la diffidenza umana, decise di vivere tramutato in aquila. L’Ade, che accoglie le anime di tutti i defunti tranne i morti rimasti insepolti, alle volte viene confuso con una sua sezione, Tartaro, il luogo in cui si trovano sia i Titani, che invano tentarono di sconfiggere gli dei Olimpi, sia quei mortali puniti per i loro gravi misfatti come Tantalo, Sisifo, le Danaidi. Le anime di coloro che in vita non furono né malvagie, né straordinariamente virtuose, si aggiravano invece sul Prato degli Asfodeli, un luogo bello ma debolmente illuminato: le anime più nobili, infine, accedevano nei luminosissimi Campi Elisi, o secondo alcuni autori, alle Isole Fortunate. Virgilio aggiunse i Campi del Pianto, riservati ai morti suicidi e a coloro che in vita furono travolti dalla passione, e una sezione che accoglieva tutti i caduti in guerra, d’animo non malvagio e onorevolmente sepolti.
Decima tappa: scilla e cariddi
Scilla, cui la natura aveva fatto dono di una incredibile grazia, era solita recarsi presso gli scogli di Zancle, per passeggiare a piedi nudi sulla spiaggia e fare il bagno nelle acque limpide del mar Tirreno. Una sera, mentre era sdraiata sulla sabbia, sentì un rumore provenire dal mare e notò un’onda dirigersi verso di lei. Impietrita dalla paura, vide apparire dai flutti un essere, metà uomo e metà pesce dal corpo azzurro con il volto incorniciato da una folta barba verde e i capelli lunghi sino alle spalle, pieni di frammenti di alghe. Era un dio marino, che un tempo era stato un pescatore di nome Glauco, che un prodigio aveva trasformato in un essere di natura divina. Scilla, terrorizzata alla sua vista, perché non capiva di che tipo di creatura si trattasse, si rifugiò sulla vetta di un monte che sorgeva nelle vicinanze. Il dio marino, vista la reazione della ninfa, iniziò a urlarle il suo amore e a raccontarle la sua drammatica storia. Era infatti un tempo un pescatore della Beozia e precisamente di Antedone, un uomo come tutti gli altri, che trascorreva le sue lunghe giornate a pescare. Un giorno, dopo una pesca più fortunata del solito, aveva disteso le reti ad asciugare su un prato adiacente alla spiaggia, e aveva allineato i pesci sull’erba per contarli quando, appena furono a contatto con l’erba, iniziarono a muoversi, presero vigore, si allinearono in branco come fossero in acqua e saltellando, fecero ritorno al mare. Glauco, esterrefatto da tale prodigio, non sapeva se pensare a un miracolo o a uno strano capriccio di un dio. Scartando però l’ipotesi che un dio potesse perdere tempo con un umile pescatore come lui, pensò che il fenomeno dipendesse dall’erba e provò a ingoiarne qualche filo. Come l’ebbe mangiata, sentì un nuovo essere nascere dentro di lui, che combatteva la sua natura umana fino trasformarlo in un essere attratto irresistibilmente dall’acqua.
Undicesima tappa: isola del sole
Corrisponde alla Sicilia, che nel poema omerico è chiamata anche Trinacria. In quest’isola i compagni di Odisseo, affamati, mangiano le vacche sacre al dio Sole. Zeus scatena allora una tempesta e li fa naufragare. Si salva solo Odisseo che giunge naufrago sull’isola di Ogigia, dove rimase per sette anni con la ninfa Calipso, innamoratasi dell’eroe itacese a tal punto da non volerlo più lasciar partire, se non a seguito di un ordine esplicito di Hermes, a sua volta inviato da Zeus. La ninfa ne informa Ulisse, ma questo diffida temendo un attentato alla propria vita. Solo dopo un solenne giuramento di Calipso, Ulisse costruì una zattera, con la quale giunse presso l’isola dei Feaci.
Dodicesima tappa: isola dei Feaci
L’isola dei Feaci è il luogo dal quale Odisseo ripartirà per tornare a Itaca. Una tappa fondamentale. Un’isola cinta da mura ma con due porti, sempre pronta a tutelare la propria identità, proteggendola, ma anche ad accogliere chi arriva e a partire per conoscere l’altro. Un’isola ubicata chissà dove. Un po’ ovunque.
E i Feaci. Un popolo dal raffinato livello di civiltà e con il culto dell’ospite, della Xenìa greca. Pacifici, non violenti, amano l’arte e lavorano i campi. Un popolo che accoglie il ramingo Odisseo e si propone di riaccompagnarlo in patria. Tra i Feaci Odisseo troverà la serenità e la fiducia per raccontare il suo viaggio.
Ultima tappa: il ritorno a Itaca
Finalmente dopo tanti anni in viaggio il coraggioso Ulisse arriva in patria; ancora stordito dal viaggio, all’inizio non si rese conto di dove si trovava, ma appena lo comprese baciò la sua amata Itaca. Sceso dalla nave incontra Pallade Atena, che organizza un incontro segreto con il figlio Telemaco. Ulisse arrivò travestito, ma poi si svelò e i due si abbracciarono, e pianificarono la vendetta contro i Proci che volevano usurpare il trono di Itaca. Allora Odisseo, sempre con il travestimento, si avviò per la reggia dove si trovava la moglie Penelope, in pena per lui, ma non le si rivelò. La moglie si rivolse a lui dicendogli che si sarebbe tenuta una gara con gli archi con i Proci. Arrivato il giorno della gara, tutti provarono a tendere l’arco di Ulisse, ma nessuno ci riuscì, neanche il figlio Telemaco. Odisseo si fece avanti e chiese ai Proci di poter provare. Tutti si misero a ridere, ma quando Ulisse scagliò la prima freccia rimasero sbalorditi. Odisseo, allora, scagliò altre frecce ed uccise tutti i Proci. Poi si rivelò alla moglie, che come prova della sua identità si fece raccontare come avevano costruito il letto nunziale. Solo a quel punto credette al racconto dello straniero e i due si abbracciano. La mattina dopo si recò dal padre Laerte per portarlo alla reggia, ma le ostilità non erano finite: vi erano alcuni cittadini itacesi che volevano vendicare i Proci. Atena, allora, intervenne facendo stringere un patto tra il popolo e i re. Così ad Itaca continuò a regnare la pace.
Bongiovanni Marco l D
Grazie del bell’articolo, letto con gran interesse. È scritto molto bene, avanti così!