Foibe: tombe senza nome
L’istituto “Empedocle” di Messina, giorno 12 febbraio, ha voluto rendere omaggio alle vittime delle foibe. Presso i locali del liceo scientifico si è tenuto un dibattito nel quale sono intervenuti due familiari di italiani infoibati: la dott.ssa Cacciola, presidente dell’associazione A.C.D.J. (Associazione Nazionale tra i Congiunti dei Deportati italiani uccisi o scomparsi in Jugoslavia) e la dott.ssa D’Aliberti, vicepresidente dello stesso ente. Le loro toccanti testimonianze hanno colpito tutti. Ciò che colpisce di più è, tuttavia, il silenzio che a lungo è calato su una così grande tragedia. Solo nel marzo del 2004, infatti, è stata approvata la legge n°92 che ha sancito l’istituzione del «Giorno del ricordo» in memoria delle vittime delle foibe, dell’esodo giuliano-dalmata, delle vicende del confine orientale e concessione di un riconoscimento ai congiunti degli infoibati.
“Foiba”: dal latino “fovea”, significa “fossa”, “abisso”. Fenomeno carsico tipico della Venezia Giulia, le foibe sono cavità naturali a forma di imbuto, che sprofondano nel terreno per decine o centinaia di metri. La bocca della foiba, o inghiottitoio, è quasi sempre coperta dalla vegetazione spontanea che vi cresce attorno, per cui risulta di difficile localizzazione. Sotto l’apertura si spalanca una voragine che si perde nelle viscere della terra, inaccessibile all’uomo. Nel passato queste cavità vennero utilizzate dai contadini del posto per eliminare sterpaglia, macerie, carcasse di animali morti, vecchie suppellettili e prodotti deteriorati. Nel XX secolo, invece, esse divennero la tomba di un numero imprecisato di italiani, perseguitati dal regime di Tito, autore di un vero e proprio genocidio.
Siamo nell’estremo confine orientale dell’Italia, terre in cui convivevano diversi gruppi etnici. Durante il periodo fascista, Mussolini avviò qui un processo di italianizzazione che determinò la nascita di organizzazioni antifasciste. Da lì a breve, il malessere si tramutò in odio e questo a sua volta in ribellioni armate. Mussolini rispose allestendo campi di lavoro dove avrebbe detenuto gli oppositori al regime. Questa situazione si protrasse fino al 1943, anno in cui l’Italia firmò segretamente l’Armistizio con gli Alleati, creando un vuoto di potere che permise alle organizzazioni comuniste slovena e croata di acquisire sempre più controllo in quei luoghi. Fu in quel momento che gli slavi dell’Istria e della Dalmazia, associando gli italiani al fascismo, li torturarono e li gettarono nelle foibe. Il culmine si raggiunse quando nel 1945 Tito occupò l’Istria, Trieste e Gorizia, costringendo la quasi totalità degli Italiani ad un esodo dal quale spesso non avrebbero più fatto ritorno.
La triste pagina storica ha ispirato opere letterarie e rappresentazioni filmiche e teatrali. Fra queste ultime degno di nota è lo spettacolo di Simone Cristicchi, “Magazzino 18”. In questa rappresentazione, Cristicchi interpreta il ruolo di un archivista romano inviato dal Ministero degli interni al Magazzino 18, al Porto Vecchio di Trieste, uno dei magazzini dove gli esuli depositavano i propri averi prima di abbandonare la propria terra. Il protagonista si ritrova davanti a file di sedie, vecchi mobili, attrezzi da lavoro e oggetti personali. Non sa a chi appartengano, né perché siano lì. Inizia così a rovistarvi in mezzo, ne legge i nomi e le date incise sopra, e poco dopo comprende di cosa si tratti: sono gli oggetti lasciati dagli italiani fuggiti dall’Istria, Fiume e Dalmazia sotto la pressione di Tito. Cristicchi ripercorre la storia degli esuli attraverso i loro oggetti, immaginandone fatiche, sofferenze e speranze. È una rappresentazione apprezzabile per il suo valore artistico, e anche in virtù della funzione che svolge, ovvero quella di ripercorrere le tappe di una tragedia italiana e di italiani.
Emanuele Lo Mundo, II A
Liceo scientifico “Empedocle”- opzione scienze applicate- (Me)