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La maledizione dell’architetto #Settestoriedimemoria_03

Se ricordo bene, un vecchio adagio recitava più o meno così: «Gli architetti dicono di saper fare tante cose diverse e le fanno tutte male; gli ingegneri sanno far bene solo una cosa e fanno sempre quella; per fortuna che ci sono i geometri a risolvere i problemi».

Suppongo di aver provato molto rispetto per quel geometra che si sentì in dovere, molti anni fa, di rivelarmi questa sua arguta convinzione. Lo dimostrerebbe la fedina penale immacolata e il fatto di non avere memoria di un mio coinvolgimento in eventi rissosi a difesa della categoria.

Tuttavia, improvvisamente l’estate scorsa – in modo certamente meno drammatico che nell’omonimo film – la diabolica frase mi ritornò in mente, associandosi al ricordo molto più nitido di un lontano e bellissimo pomeriggio estivo tra i chiostri di San Placido Calonerò, ex abbazia benedettina del ‘500 a sud di Messina.

In quell’oasi di serenità, allora non deturpata dal primo letale restauro ma ugualmente lontana dall’ottimo intervento successivo tuttora non concluso, una tizia di Yonkers, New Jersey, aveva cominciato a leggere la mano a tutti i presenti, dichiarandosi se non maga, perlomeno veggente.

Lei era la madre di Joe, un chitarrista girovago italo-americano approdato in città qualche tempo prima ed entrato nel gruppo gospel (di cui molto indegnamente facevo parte) capitanato dal mio inarrivabile amico Franco. Quei presenti erano i componenti del gruppo che, per la cronaca, si chiamava Freedom.

La sera stessa facemmo un concerto in acustico al centro del chiostro nord, raccolti dentro il piccolo padiglione ottagonale, con le candele a terra come unica fonte d’illuminazione e il pubblico sotto i portici. Non ci furono riprese video dell’evento, perciò di esso conservo solo il ricordo migliore, quello emotivo.

La madre di Joe, venuta a trovare il figlio e a farsi una vacanza in Italia, lesse pure la mia mano. Sapeva della laurea in architettura appena presa, ma null’altro. Saranno stati i luoghi a ispirarla o, più semplicemente, la buttò lì a casaccio, ma disse una cosa che mi rimase in testa per sempre: «Il tuo periodo è il Rinascimento».

Ora, a parte che era il mio preferito al liceo quando studiavo Storia dell’Arte, anche all’università in effetti, ebbi esperienze legate a edifici di quell’epoca. La mamma veggente di Joe disse la stessa cosa pure a Franco che, incredibilmente, aveva fatto la tesi di laurea proprio su una chiesa cinquecentesca!

Con gli occhi del ricordo, credo oggi che l’incrocio di sguardi di quell’attimo con il mio amico, sia stato l’atto di fondazione della nostra successiva collaborazione nella ricerca, basata su tutto ciò che odorava d’arte tra la metà del ‘400 e l’intero ‘500. Ma questo lo avremmo scoperto soltanto in seguito. Anche a San Placido.

A questo punto, penso che le mie bravissime colleghe di lettere mi avrebbero già interrotto, chiedendomi dove io voglia arrivare con questi pensieri sciolti, evidenziando pure che sono quasi al limite del “fuori tema” o del «Che c’entra col titolo?». Detto, fatto; recupero immediatamente.

La maledizione che perseguita l’architetto, non è quella semplicistica di essere mandato al diavolo due volte su una, come si potrebbe pensare, ma la richiesta al suddetto, da parte dell’intero orbe terracqueo, di competenti pareri sull’universo creato e su quello ancora da creare. Per esempio, una delle frasi ricorrenti in un viaggio, è: «Meno male che oggi abbiamo con noi l’architetto! Ci spiegherà tutto lui».

L’architetto è buono per soddisfare ogni richiesta; deve saper elencare di seguito l’intera nomenclatura degli ordini classici, spiegare cos’è un periptero esastilo, conoscere l’opera omnia di Henry Moore, Basquiat e Duccio di Buoninsegna, le differenze tra un intarsio di Maggiolini e le tarsie prospettiche dei Lendinara.

Vuoi, poi, che non sappia proprio nulla, l’onnisciente, sul Simbolismo? Almeno due, tre autori ci starebbero. Ovviamente deve saper spiegare sia lo stile arabo-normanno – che da Siculi almeno un po’ si mastica – sia il settecentesco danese; distinguere il gotico francese dall’inglese o spiegare, nonsisammainellavita, se le strutture in american balloon frame somiglino un po’ o per niente a quelle della gaiola pombalina.

Magari l’ultima richiesta è più difficile che te la facciano, gli avvoltoi, ma vi sembra, invece, normale dover chiarire le differenze dell’intera stirpe dei pittori fiamminghi, da Van Eyck a Van Gogh, con dentro Christus, van der Weyden, Van Dyck, Vermeer, Rubens e Rembrandt, che sembra la formazione del PSV Eindhoven?

Da docente poi, la butto là, un giorno potrebbero magari importi di insegnare una materia mai prevista nei piani di studio delle facoltà di architettura, vietandoti invece di parlare di quelle cose ricercate per fatti tuoi e che sapresti pure benino, per averle persino scoperte.

Ma qui, forse, sto andando oltre con scenari di pura fantasia!

Ovviamente non metto nel paniere l’aspetto ordinario della professione. Anche perché, lì ci sarebbero altri bei discorsi, con spigolature che riempirebbero un volume dell’Encyclopédie. Posto infatti che non tutti sono archistar sulle Nuvole o propugnatori di filosofie ZEN per quartieri disagiati, una buona parte dei troppi architetti in giro si distinguerà, bassamente, nel più puro disbrigo pratiche, quell’insieme di attività che un sagace collega battezzò, un tempo: «Il nostro piatto quotidiano di pasta coi fagiuoli!».

In buona sostanza, malgrado loro – gli architetti – ci mettano impegno a schiantarsi sui muri a velocità elevata, cimentandosi in attività bizzarre e tutte diverse, è pur vero che il meglio della leggenda su questa strana figura professionale l’abbia creata – e lo dico con spudorata parzialità – il resto del mondo.

Oddio, ora sento nuovamente – e con buona ragione – il coro delle pazienti colleghe di lettere a riportarmi sulla retta via dell’esposizione: «Cosa c’entra tutto questo con la mamma veggente, San Placido, i Freedom e il Rinascimento?». Giusto! Ok, mi son lasciato prendere la mano. Concludo.

Questo mio girovagare fra architetti bullizzati e frasi fatte di geometri interessati, era solo per ribadire, a me stesso in primis e agli avvoltoi intorno in secundis, che non si possono sapere contemporaneamente cose tanto diverse, neanche a studiare tutta la vita senza mai farsi una vita. Esistono anche gli specialisti!

D’altronde, in campo medico nessuno si sognerebbe mai di affidare a un oculista il controllo del proprio muscolo cardiaco, a meno che non ci siano di mezzo affari di cuore personali d’altro tipo. Sul Rinascimento, quindi, il mio periodo come predisse la veggente, magari un tantino risponderò. Su qualche altro tema, ci posso pure provare. Ciò che non so, lo potrei imparare col tempo. Forse.

Per il resto, invece, rivendico anch’io – con forza – il sottile piacere dell’incompetenza condivisa, il dolce sapore del «me la sto godendo lo stesso» o la soddisfazione nel dire al mondo: «sono qui per cacchi miei, mi voglio emozionare senza sapere un caspita di nulla; ora per favore, fatemi mangiare in pace le patatine».

Francesco Galletta_Architetto

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