Zoff, Gentile, Cabrini: quelli eravamo noi! #Settestoriedimemoria_02
Se hai diciassette anni, ami il calcio sopra ogni cosa e la Nazionale del tuo Paese vince il Mondiale, pure tu diventi Campione del Mondo. Non importa se poi avverrà ancora o mai più; il fatto che sia successo in quel preciso momento ha già segnato per sempre una parte emotiva della tua vita.
Prima dei Mondiali di Russia 2018, mia figlia, che negli ultimi anni si è appassionata sempre più di calcio, mi disse: «Ricordo poco della vittoria del 2006; avevo la bandierina ma ero troppo piccola; e poi mi spiace che non ci sia la nostra squadra quest’anno. Sarebbe stata tutta un’altra cosa».
Neanch’io, che sono del ’65, ho memoria emotiva della vittoria all’Europeo del ’68; né immagini dirette di Italia-Germania 4-3 o della sconfitta col Brasile in finale nel ‘70. Troppo piccolo per il mito e ancora nessuna tv in casa per seguire i mondiali in diretta. Però Giggiriva lo conoscevo. È lui il mio primo ricordo di calcio, anche se il più coinvolgente fu senza dubbio la vittoria ai Mondiali di Spagna dell’82.
Zoff, Gentile, Cabrini e tutti gli altri a seguire: era la tiritera che sapevamo a memoria quell’anno. Ma non c’erano solo gli undici che stavano in campo: in un tempo in cui non era stata ancora inventata la “rosa allargata”, quella squadra vinse, infatti, con dei doppi in ogni settore: Bergomi per Collovati in difesa, Oriali più Marini per Antognoni al centro, Altobelli per Graziani in attacco. Comunque sia, quelli eravamo noi.
Il calcio è uno sport per tutti ed è sempre stato un gioco di strada, anche se nel mondo ricco si gioca, ormai, più nelle cantere e nei campi attrezzati che nelle carretere polverose; però non è come fare vela o windsurf dove ti serve per forza il mezzo. Né tennis che devi avere campo, rete e racchetta; a meno che tu non voglia mimare il finale di Blow Up di Michelangelo Antonioni.
Tutti abbiamo giocato a calcio, anche senza un pallone vero; bastava quello alternativo in autocostruzione. Io lo facevo come si usava da sempre, con l’anima di fogli di carta appallottolati stretti, rivestiti di stagnola; il tutto trattenuto con scotch. Il mio tocco di finesse, però, stava nella finitura esterna con figurine ripetute dei calciatori che davano maggiore pesantezza all’involucro e tanta velocità.
La mia personale interpretazione dell’icosaedro tronco era, perciò, una vera e propria palla di cannone. Se sparavi ‘na bìsula con cattiveria, potevi persino scassare lo stinco a qualcuno. Eravamo alle elementari e le partite a scuola le giocavamo in una stanza che già allora sembrava piccola. Tutti contro tutti, ovviamente.
Il mio primo Mondiale in tv fu quello del ’74 in Germania, a nove anni. Italia eliminata per 2-1 dalla Polonia. I gol di Szarmach e Deyna e quello inutile di Capello nel finale, li vidi a casa di Peppe, un ragazzo del cortile. Da lì in poi non mancai nessun Mondiale. Mi fa specie pensare che tra il ’74 e l’anno della vittoria, ci siano stati solo otto anni di mezzo, ma a quell’età – si sa – otto anni valgono una vita intera, andata e ritorno.
A scuola ebbi spesso il Diario del calcio. Alcuni erano fatti molto bene: ci imparai i fondamenti. I calciatori famosi, gli avvenimenti più importanti, i ruoli, le tattiche e i sistemi di gioco: il catenaccio, il WM, il metodo. Cosa fosse un centromediano, perché venne creato il libero e come funzionava il nuovissimo calcio totale degli olandesi, appena inventato agli inizi dei ‘70. Internet, ovviamente, era ancora nella mente del Signore!
Nel periodo delle medie, in estate, in un’area recintata del quartiere oggi parcheggio, ogni mattina c’erano le solite due partite. Pomeriggio no. A volte rimanevo con i ragazzi del cortile oppure in giro, ma sempre in zona. Difficile che si andasse fuori confine. D’altronde eravamo tantissimi già lì: siamo stati la generazione del baby boom. Due squadre 11 contro 11 si facevano in niente e altri ancora ne restavano a guardare.
Di solito ci bastava giocare tra noi, ma spesso sfidavamo quelli di San Cosimo o i cattivi dell’11 bis. Non ho ricordo di altri avversari esterni. In verità, appartenevamo tutti allo stesso quartiere, ma ogni zona era una enclave isolata e abbastanza identitaria, anche se ci separavano distanze ridicole fra i 300 e i 500 metri.
Giocavo a calcio continuamente, ma un’estate, a un certo punto, m’inventai giornalista. Mi piazzavo a più di tre metri d’altezza su un pilastro del cancello dell’area chiusa e da lì seguivo le partite, scrivendo la cronaca degli avvenimenti. Tutti allora cominciarono a chiedermi se stessi mettendo questa o quell’azione nei miei appunti. Se non parlavo di loro rimanevano delusi o mi andavano contro; fermavano persino il gioco.
Smisi sia per la pressione esagerata dei ragazzi, sia perché Tanino, fidanzato di una mia cugina più grande, mi rimproverò di fare solo cronaca e mai commenti. Col senno di poi capii che aveva ragione lui, ma essendo all’epoca giovanissimo e molto più permaloso di adesso, mandai semplicemente tutti a quel paese in modo meno educato di quanto ora ne stia scrivendo.
Una scalcinata società sportiva del quartiere, un giorno mi chiese persino se volessi fare calcio “vero” con loro. Per il mio tipo di fisico mi vedevano bene come stopper. Declinai. Non ho mai amato gli allenamenti e giammai gli allenatori. Non ho rimpianti per quella scelta: non avrei concluso nulla. Non sarei mai stato un Collovati, ma nemmeno la brutta copia di Terry Butcher.
Il calcio giocato si faceva nel quartiere. Quello in curva – al Campo Celeste con il Messina – sbocciò, invece, alle superiori, insieme a quello commentato, che però si svolgeva in classe. Più nel triennio, in verità. Maurizio, che oggi dirige benissimo una succursale bancaria, il giovedì comprava il Guerin Sportivo, un ottimo settimanale di approfondimento che ci passavamo a giro nella mattinata.
A me toccava spesso durante l’ora di Divina Commedia, sovrapponendosi prudentemente al libro di testo. Mi piaceva lo stile del Guerino: un misto di linguaggio epico, ironia e acutezza d’analisi. Nella mia scrittura credo di aver imparato molto più da quelle colonne che da padre Dante (ovviamente!).
Pure la Gazzetta dello Sport circolava sottobanco. Anche spudoratamente sopra il banco, talvolta; come avvenne una mattina nell’ora di filosofia, con Daniele – poi volato fuori città in faccende troppo importanti per noi normali – e il solito Maurizio. Che dire? Bisognava rimanere aggiornati su news e formazioni. Poi, in fondo, perché stupirsi? Eravamo solo gli avveduti anticipatori della lettura del giornale in classe.
Attenzione però: nessuno di noi era uno scioperato! Tutt’altro. Io, che non ero tra i bravissimi, in Filosofia e Storia avevo otto, che al cambio attuale dei voti varrebbe dieci. Andavo benissimo in Inglese, come tutta la classe d’altronde, per merito di un’insegnante fantastica. Molto bene in Matematica. Invece, nonostante facessi lo scientifico, la Fisica mi stava proprio sulle scatole.
Manco a dirlo, andavo super bene in Disegno e Storia dell’Arte, che poi scelsi come compagni di vita e di mestiere. In Italiano navigavo sul sei e mezzo, perché scrivevo male. Bè, diciamo piuttosto che ero acerbo e che le cose migliori le tenni sempre per me. Poi leggevo pochissimi libri, anzi zero. Invece, di fumetti a mai finire; ma in quinto ho adorato Joyce e, su tutti, il Gatsby di Fitzgerald che portammo all’esame.
Niente a che vedere, comunque, con Massimo, The Genius of Math, ora mio collega, che scriveva da Dio, leggeva Pirandello, Silone, i saggi storici di Mack Smith e, soprattutto, il Guerino. Pure Gigi leggeva Silone, disegnava benissimo e camminava come John Wayne. Oggi lavora lontano, a far tremare i polsi a qualcuno.
Giò, inteso Cozzis, nelle discussioni sul calcio entrava sempre educatamente. Era proprio un bravu figghiòlu. Oggi di più. Maurizio era bravissimo. Dipingeva pure, ma all’esame lo penalizzarono: il suo voto (alto) lo parificarono a quello di un compagno vip, studioso zero, che però già allora aveva la barca. Invece Frank, mio buon compare di banco, era proprio un ‘miricanu mancato. The Star-Spangled Banner più che Fratelli d’Italia era il suo inno, ma non nel calcio. Si dilettava già sui computer primitivi in DOS e da allora non ha mai smesso di programmare.
Buona parte della squadra del Guerino, in quinto transitò nel Giornale Scolastico; anzi a dirla proprio tutta, lo fondò. Niente calcio, però, perché i ragazzi delle altre classi volevano fare solo gli impegnati! Io ci provai, lo giuro, a scrivere di cose serissime, ma la redazione – non ho mai capito perché – le scambiò per testi ironici. Lo lasciai credere per evitare una malafigura col botto.
Disegnai pure tre vignette; due erano sul preside. La prima fu pubblicata; la seconda, abbastanza esagerata, la censurai io stesso in autotutela! La terza, che tenni sempre inedita, era su Bearzot e la Coppa del Mondo. Alla fine, il Mondiale, le squadre e il calcio, ritornavano sempre e comunque nella mia vita.
Zoff, Gentile, Cabrini e il resto della squadra che stravinse il Mondiale di Spagna in quell’estate caldissima dell’82, arrivarono perciò all’età e al momento giusti, per farci godere al meglio la nostra passione totale. A vedere la finale c’erano quasi tutti quelli che ho citato, più molti altri ancora; a casa di Maurizio.
Mai dopo quel giorno sarebbe stata più la stessa cosa; almeno per me.
Neanche quando al torneo 2006, al Westfalenstadion di Dortmund, il taglio dentro di Pirlo per Grosso e la cavalcata felice di Del Piero, abbatterono la Germania in semifinale tra il 119’ e il 120’+1’ dei supplementari, mandando tutti in delirio a Berlino, a giocarci vittoriosamente il Mondiale contro la Francia.
Ecco, nella differenza tra le due vittorie, con le incredibili sconfitte che ci furono poi di mezzo, ci sta pure la frase di mia figlia: «Ero troppo piccola». Molto banalmente, se vogliamo, è il riassunto di tutto. In fondo, è anche un pensierino minuscolo e molto retorico di vita: esiste un tempo migliore per ogni cosa e non conta solo quanto è grande l’emozione, ma il momento esatto dell’esistenza in cui l’hai vissuta.
Francesco Galletta
POST SCRIPTUM
La fine dei mondiali dell’82 si portò dietro un vuoto emotivo mai provato in precedenza. Ci andò di mezzo quella sventurata con cui “mi ero messo” pochi mesi prima. A fine giugno si era trasferita al mare, fuori città; ci vedevamo pochissimo perciò in quel periodo. Ci lasciammo subito dopo la finale.
Vabbè, era l’adolescenza: «voli imprevedibili ed ascese velocissime», come cantava Franco Battiato per altri versi; un’età a cui non vorrei mai più ritornare. Per la cronaca, diciamo che la “situazione” con la tipa poi riprese per un po’, prima di naufragare definitivamente per altri versi; ma questa è proprio un’altra vicenda.
E il calcio? Per qualche tempo continuò più di prima. C’era un Europeo da vincere nell’84, ma a quel torneo la Nazionale neanche ci arrivò. Fu prima la Francia di Platini. Poi accadde che nella mia testa, all’improvviso, il pallone fece un crack tremendo: era il 29 maggio del 1985.
Con alcuni “reduci” della finale di Madrid davanti a un televisore in cucina, vedemmo trentanove persone massacrate senza un motivo dentro uno stadio. L’Heysel fu la svolta. A vent’anni ebbi, finalmente, la mia vera maturità e l’affrancamento dalla parte più esagerata della mia passione per il calcio.
POST POST SCRIPTUM
Sono contento che alcuni “reduci” di quella finale ci siano ancora nella mia vita, pur sparsi. Dedicato a loro.
Grazie per la valanga di ricordi