DISLESSIA E DINTORNI… L’IMPORTANZA DI UNA DIAGNOSI PRECOCE
Perché alcuni bambini non riescono a leggere e a scrivere come gli altri? Perché confondono i numeri e sbagliano i calcoli, anche quelli più semplici?
Il loro problema risiede nei Disturbi Specifici dell’Apprendimento e non ha nulla a che vedere con l’intelligenza. Questi bambini non sono pigri o svogliati, ma sono come gli altri. Anzi, spesso, il loro quoziente intellettivo è al di sopra della media.
Sono brillanti, svegli, parlano correttamente e senza intoppi, ma quando leggono, scrivono o eseguono operazioni, fanno moltissimi errori e questo potrebbe indurre a pensare che abbiano difficoltà scolastiche perché studiano poco e non si impegnano abbastanza.
Questi disturbi, sempre più diffusi, possono costituire un ostacolo insormontabile nel processo di crescita del bambino rendendo un incubo la vita di tutti i giorni. Sono tuttavia tantissimi i bambini che sfuggono ad una diagnosi perché il loro disagio viene scambiato per altro: pigrizia, svogliatezza, disattenzione, poca motivazione allo studio. Oppure perché confusi con i bambini con difficoltà scolastiche (che sono molto numerosi 12-16% della popolazione scolastica) il cui basso rendimento è associato erroneamente a diverse cause: dai problemi psicologici e comportamentali alle carenze affettive, ambientali, familiari; dalla qualità dell’insegnamento offerto dalla scuola agli handicap sensoriali o addirittura al ritardo mentale.
Il riconoscere il problema deve servire soprattutto ad evitare critiche e giudizi negativi (“sei pigro”, “non ti impegni”), che a lungo andare possono influire su un’immagine di sé come perdente e sulla propria autostima.
Purtroppo è frequente che le difficoltà specifiche di apprendimento non vengano individuate precocemente e il bambino è costretto così a vivere una serie di insuccessi a catena senza che se ne riesca a comprendere il motivo.
Quasi sempre i risultati insoddisfacenti in ambito scolastico vengono attribuiti allo scarso impegno, al disinteresse verso le varie attività, alla distrazione e così questi alunni, oltre a sostenere il peso della propria incapacità, se ne sentono anche responsabili e colpevoli. L’insuccesso prolungato genera scarsa autostima; dalla mancanza di fiducia nelle proprie possibilità scaturisce un disagio psicologico che, nel tempo, può strutturarsi e dare origine ad una elevata demotivazione all’apprendimento e a manifestazioni emotivo-affettive particolari quali la forte inibizione, l’aggressività, gli atteggiamenti istrionici di disturbo alla classe e, in alcuni casi, la depressione. Il soggetto con disturbo di apprendimento vive quindi il proprio problema a tutto tondo e ne rimane imprigionato fino a che non si fa chiarezza, fino a che non viene elaborata una diagnosi accurata che permette finalmente di scoprire le carte.
La disgrafia pone il bambino di fronte alla certezza della propria incompetenza, poiché è l’aspetto più visibile del suo apprendimento; il suo quaderno è pasticciato, sgualcito, pieno di correzioni e segni rossi e di una serie di parole incomprensibili che sembrano gli scarabocchi dei piccoli quando “fanno finta” di scrivere. Quel quaderno è un segno tangibile della sua incapacità e l’alunno finisce per identificarsi con esso: non è la sua scrittura che non va bene, è egli stesso a non andare bene. Il bambino disgrafico, come spesso capita in genere al bambino con disturbo di apprendimento, vive sulla propria pelle la difficoltà; egli si trova a far parte di un contesto (la scuola) nel quale vengono proposte attività per lui troppo complesse e astratte, ma osserva che la maggior parte dei compagni si inserisce con serenità nelle attività proposte ed ottiene buoni risultati. Sente su di sé continue sollecitazioni da parte degli adulti (“Stai più attento!”; “Impegnati di più!”; “Hai bisogno di esercitarti molto” …) e spesso non trova soddisfazione neanche nelle attività extrascolastiche, poiché le lacune percettivo–motorie possono non farlo “brillare” nello sport o non renderlo pienamente autonomo nella quotidianità.
Ecco che si percepisce come incapace e incompetente rispetto ai coetanei e inizia a maturare un forte senso di colpa; si sente responsabile delle proprie difficoltà, ritiene che nessuno sia soddisfatto di lui: né gli insegnanti né i genitori. Talvolta, per non percepire il proprio disagio mette in atto meccanismi di difesa che non fanno che aumentare il senso di colpa, come il forte disimpegno (“Non scrivo perché non ne ho voglia!”; “Non eseguo il compito perché non mi interessa” …) o l’attacco (aggressività).
Talvolta il disagio è così elevato da annientare il soggetto ponendolo in una condizione emotiva di forte inibizione e chiusura. Ecco che è davvero importante individuare precocemente il problema, dare prima possibile il via ad un adeguato percorso, finalizzato sia alla riduzione della difficoltà specifica che alla maturazione di più adeguati livelli di autostima. È chiaro che risulta indispensabile il coinvolgimento della scuola e della famiglia, in quanto luoghi e scenari di vita del soggetto: il riconoscimento della difficoltà, l’individuazione delle capacità, la comprensione del vissuto emotivo–affettivo, la valorizzazione degli ambiti di competenza e la promozione di più adeguati livelli di sviluppo, potranno garantire buoni risultati sia sul piano grafo–motorio che per il bambino “intero”.
Non è retorica dire che dei bravi docenti possano decidere l’esistenza di una persona dislessica. Lo conferma un insegnante di eccezionale talento, lo scrittore Daniel Pennac. Al Festival della letteratura di Mantova il grande Pennac ha spiegato, pur senza riferirsi unicamente ai dislessici: «Un vero professore si preoccupa di comprendere il dolore e la solitudine di un bambino che non capisce in un mondo di ragazzi che capiscono. Solo noi possiamo tirarlo fuori da quella prigione, sia che siamo formati per farlo o meno». Pennac quella prigione la conosce anche per esservi stato, a scuola era afflitto da gravi problemi di ortografia e fu bocciato più volte. Racconta Pennac nel suo Diario di scuola: «Ero negato a scuola e non era mai stato altro che questo. Il tempo sarebbe passato, certo, e poi la crescita, certo, e i casi delle vite, certo, ma io avrei attraversato l‘esistenza senza giungere ad alcun risultato. Era ben più di una certezza, ero io. Di ciò alcuni bambini si convincono molto presto e se non trovano nessuno che li faccia ricredere, siccome non si può vivere senza passione, in mancanza di meglio sviluppano la passione del fallimento». (…) «Gli insegnanti che mi hanno salvato e che hanno fatto di me un insegnante, non erano formati per questo. Non si sono preoccupati delle origini della mia infermità scolastica, non hanno perso tempo a cercare le cause e tantomeno a farmi la predica. Erano adulti di fronte a un adolescente in pericolo. Hanno capito che occorreva agire tempestivamente, si sono buttati, non ce l’hanno fatta. Si sono buttati di nuovo, giorno dopo giorno, alla fine mi hanno tirato fuori. E molti altri con me. Ci hanno letteralmente ripescati. Dobbiamo loro la vita».
prof.ssa Giuseppa Tindara Andaloro
IC Primo Milazzo – Scuola Secondaria di primo grado “Garibaldi”