lunedì, Dicembre 23, 2024
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“Ecco la plastica che scompare sotto un raggio di luce” (da Repubblica.it)

di GIACOMO TALIGNANI

Basta un fascio di ultravioletti e la catena di polimeri si dissolve. La scoperta di un team Usa per salvare l’ambiente

L’AUTODISTRUZIONE di uno dei materiali più resistenti al mondo va in scena in un piccolo laboratorio dell’Università dell’Illinois. La plastica, famosa per la sua lunghissima durata, “muore” lentamente sotto un fascio di luce. I ricercatori guidati dal professor Adam Feinberg sono entusiasti e, raccontano al New York Times, sono convinti sia la chiave per un futuro più sostenibile.

L’esperimento. Un fascio di luce colpisce la plastica e ne provoca lo scioglimento

Questo materiale infatti, il terzo più diffuso al mondo, è tanto utile per resistenza e applicazioni quanto – se mal gestito – nocivo per l’ambiente. Ne ricliamo solo il 10% e una singola bottiglietta abbandonata può durare anche 450 anni: considerando che ogni anno negli oceani finiscono 8 milioni di tonnellate di plastica, la necessità di trovare alternative alla sua longevità è oggi una priorità per la scienza.

Così nei laboratori americani si sta testando un nuovo metodo per rendere la plastica auto-distruttibile partendo da quei polimeri, ovvero macromolecole, solitamente scartati dall’industria perché incapaci di formare catene stabili. La loro “debolezza” diventa ora un’arma: anziché assemblarli in lunghe catene vengono messi in circolo, forma tale da garantire stabilità, e poi viene mescolato un colorante giallo sensibile all’ultravioletto. Successivamente, quando la plastica è colpita dai raggi Uv, il colorante assorbendo energia strappa elettroni ai polimeri e rompe il circolo, così la catena perde stabilità.
«In sostanza si indebolisce la struttura e la si rende più degradabile. È molto interessante e potrebbe funzionare» commenta Enrica Pessione, docente di Biochimica dell’Università di Torino. «È il futuro: costruire polimeri che hanno una durata limitata. Però bisogna sempre tenere conto dell’uso che si fa di quella plastica. Se è destinata a sacchetti di nylon, suture chirurgiche, piatti monouso, allora è ottima. Ma non possiamo pensare di usarla per infrastrutture, grondaie, tubi in plastica, prodotti che hanno sostituito il piombo che veicolava metalli tossici e che oggi, proprio per la durata, garantiscono stabilità ed efficienza».

I ricercatori dell’Università dell’Illinois che lavorano al progetto (Lyndon French/NYT)

Per poterli testare in vari settori, dalla farmaceutica all’elettronica, i ricercatori Usa stanno affinando la nuova tecnologia dei polimeri compressi in modo da renderli «stabili quando la plastica è in uso e instabili quando deve scomparire». Una volta “sciolti” però c’è da gestire il futuro dei singoli polimeri che restano. «Potenzialmente sono un pasto appetibile per i batteri» dice Pessione. «La degradazione biologica è infatti facilitata se c’è già un inizio di fotossidazione con le radiazioni ultraviolette, perché gli enzimi dei microbi trovano un polimero più debole e attaccabile».
I ricercatori dell’Università dell’Illinois sono consapevoli delle difficoltà, soprattutto economiche, dell’operazione. Difficile sostituire in tempi brevi i polimeri più noti, come polietilene e polipropilene. «Ma il potenziale c’è» conclude Feinberg. «Il problema è che questo passaggio deve trovare costi sostenibili per il mercato. L’uso pratico della plastica che si autodistrugge è infatti pensabile solo se le aziende cominceranno a ragionare sul fine vita dei loro prodotti».

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