venerdì, Novembre 22, 2024
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Ho un balcone nel cuore

 

L’acqua alla valvola, il caffè raso e lo scatto netto della 9090 Sapper presero tutto il tempo necessario. Se decidi per la caffettiera al posto della macchina espresso sai già che è una giornata diversa. Fu tra un giro e l’altro del cucchiaino che dal mio balcone di fronte allo Stretto mi venne da pensare.

Ho abitato moltissimi anni a piano terra. Vengo da una famiglia di piani terra, prima con giardino, poi con cortile; però a casa di una mia nonna c’erano i balconi. Lei abitava al primo piano, ma molto rialzato: quasi un secondo; fronte strada e cortile. È iniziata lì la mia conoscenza con i balconi.

Nelle discussioni sulle “case” che avremmo voluto acquistare con la mia famiglia per spostarci dal piano terra, immancabilmente c’era una frase riassuntiva: “Sì, quella è bella! Ci sono i balconi a girare”. Posto che i miei non si mossero mai perché erano affezionati ai quattro scalini che scendevano da casa al cortile, quei balconi a girare furono per le mie orecchie di bimbo, una prima, basilare, lezione d’architettura.

Infatti, a casa della nonna i balconi non erano proprio a girare. Due sì, ma singoli non a girare. Allora la casa non poteva dirsi bella? A me piaceva. Vuoi mettere! Stavo altissi-missimo sulla strada. Certo, altissimo per un bambino. Poi, all’epoca, le automobili erano poche e gli spazi apparivano molto più grandi.

Sotto casa di mia nonna passava la processione, anzi due perché due erano le chiese e due le feste. In verità nel mio quartiere, che era lo stesso di nonna, le chiese erano tre, ma una senza processione. Bé, eravamo molto religiosi. No, è che la Madonna con tutte quelle lucine in testa e la faccia in estasi, che passava con la banda appresso e le cantilene delle signore anziane, non poteva non colpire la mia immaginazione. Molti anni dopo capii di aver vissuto per tanto tempo in un film di Tornatore.

Nelle case meridionali il balcone serve per stendere i vestiti e a prendere il fresco d’estate. Anche questa è una lezione d’architettura, infatti quando cominciarono a costruire meno balconi negli edifici, alcuni fecero da sé, magari non rispettando sempre la bellezza a girare. Architettura spontanea la chiamarono.

A casa di mia nonna l’uso del balcone per accedere al fresco era rigidamente stabilito e di solito ai piccoli toccava pochissimo spazio. Anche perché noi stavamo sempre sotto, con i ragazzi del cortile della nonna, da non confondere mai con quelli del nostro cortile e neanche con quelli degli altri cortili, contro cui scattava di solito la sfida a calcio.

Non ricordo esistessero altri sport per me oltre il calcio. Scherzo ovviamente, però non ne praticai molti, a parte il judo per poco tempo; il resto lo scoprii in tv. Il calcio è sempre stato uno sport di strada, facile, immediato e c’entra pure con il balcone. Come che c’entra? Spesso il pallone finiva dentro a un balcone e mai in uno qualsiasi: a volte in quello della vecchia.

Intanto bisogna precisare che nel nostro linguaggio il pallone non andava a finirci dentro, ma si “ruccava”, termine dal dialetto, in seguito finalmente elevato a Lingua Siciliana, che descriveva appunto quanto detto. Quando qualcuno ruccava il pallone in un balcone normale, era tuttapposto; si recuperava. Ma in quello della vecchia non c’era scampo: te lo spaccava. C’è sempre una vecchia terribile nel mondo dei bambini!

Un edificio nel mio quartiere aveva dei balconi costruiti sul ringrosso di un muro di basamento. Era un piano terra rialzato, ma girando intorno, grazie alla pendenza, anche gli scalatori meno abili, passando per il muro, potevano accedere a quei balconi. No! Mai come ladri: erano semplici recuperatori di palloni ruccati. Certo, a farlo era più facile che ora a descriverlo.

In alcuni edifici – che poi da architetto capii essere degli anni ’70, quindi all’epoca nuovi come me – vedevo degli stranissimi balconi a piano terra; cioè proprio attaccati a terra o poco rialzati. A distanza di decenni mi chiesi sempre perché li avessero fatti così. Le risposte potevano essere tante ma, ingannandomi da solo, all’epoca pensai piuttosto che fosse per uno smodato e romantico amore per i balconi.

Il balcone può raffigurare, in effetti, un vero grande amore. Può diventare persino un tutt’uno con chi vi si affaccia. Crescendo appresi di alcuni balconi famosi, che avevano fatto la Storia. Quello di quando c’era lui, per esempio, e tutti gridavano felici e contenti perché una “dichiarazione di guerra è già stata consegnata agli ambasciatori di Gran Bretagna e di Francia”. La conoscete di certo: finì male; anzi peggio.

I balconi d’amore li trovai poi in letteratura. Lui e lei si amano; lei è al balcone, lui si arrampica. Lei gli chiede: “Perché sei tu Romeo?”. E io, bimbo ingenuo ignorante la trama, mi chiedevo chi volesse mai quella tipa caramellosa al posto di Romeo. La chiudo qua perché anche questo è un balcone che finisce male.

Andò bene, invece, la storia dei balconi che affacciavano sul “Campu Celesti” a Messina. Parliamo di calcio, ovviamente, neanche a dirlo! Per i forestieri urge specificare, però, che Campu Celesti era l’appellativo vernacolare dato dal popolo allo storico Stadio Comunale Giovanni Celeste. Per tutti: u Campu. Lo stadio vero, in effetti, arrivò a Messina solo in un secondo momento.

Il Campo stava così stretto dentro la città che a un certo punto si dovette rifilare perché almeno il terreno di gioco fosse regolare. Perciò, su quattro possibili curve ne ha solo due: che poi, una è mezza buona e l’altra è una curvetta. Nei tagli, invece, dagli edifici intorno si apriva l’immaginifica visione “aggratis” della partita. Inutile dire che, nell’occasione, i provvidenziali balconi erano sempre stracolmi di cristiani di ogni età e genere. Onore però ai progettisti che seppero calcolare oltremodo tutti i possibili sovraccarichi accidentali.

C’è poi quel balcone famoso Urbi et Orbi che – se va bene – lo usano, come si suole dire, ogni morte di Papa. Sì, proprio quello di “nuntio vobis gaudium magnum”. Quando s’affacciò Francesco, fu bellissimo: “Fratelli e Sorelle, Buonasera”. Bella Fra. Ganzissimo! Uno di noi. Niente a che vedere con Angelo, Giovambattista e Albino che, visti i tempi, se la spararono a cantilena in latino. Volendo, nulla a che vedere neanche con Karol, più serio, che però poi si riprese subito la scena con la storica: “Se sbalio mi corrigirete”. Joseph, invece, fece il solito Joseph, rigidus in vitam.

Concludo passando dal sacro al profano. Posto che non mi soffermo per ovvi motivi, mi chiedo: ma quanti di voi avranno avuto una vicina di casa che spolverava in balcone vestita come Madama Cirimbriscola nella fiaba? La chiudo subito, ma giocando ironicamente con i pensieri attaccati mi sovviene un indispensabile accessorio che un tempo faceva pendant con i balconi: u panaru. Cestino di vimini e corda lunga. Obiettivi immediati con una tecnologia semplice. Offerta e domanda collegati in tempo reale. La signora non può scendere le scale? Il venditore non può lasciare l’esercizio? Si “calava u panaru” ed era fatta.

In un’immagine, un mondo; ma anche un modo per legare, è proprio il caso di dirlo, i piani terra ai balconi.

Non abito a piano terra da un quarto di secolo. Mi sono trasferito a quelli alti, altissimi, fronte Stretto; novantanove passi dalla battigia. Anche se gli Eventi Superiori mi hanno regalato, per un paio d’anni, lunghi inverni altrove, in una deliziosa casa rialzata sottotetto con balconi-finestra sul fronte interno. Lì capii che, ormai, avevo inciso nel cuore il segno dei balconi. Non balconi qualsiasi, però; quelli sul mare. Il mare che rifletteva a specchio i miei stati d’animo; dove le onde si alzavano e s’abbassavano come il mio umore.  

Spesso si dice: il tempo di un caffè; ma non sai mai quanto ne è passato tra un giro di cucchiaino e un sorso. In quel periodo a volte brevissimo, altre più lungo di una vita, in cui i pensieri scorrono. Il sole è alto, ora, sulla linea dell’Aspromonte; il mare si sta spostando tutto insieme per la “montante”. Si prevede bella giornata; pensavo di scrivere. Ho in mente qualcosa sui “balconi nel cinema”, ma è un’idea vaga. Ci dovrò lavorare.

 

Francesco Galletta

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