Le discriminazioni sessuali della lingua italiana
La nostra lingua è ricca di forme sessiste e di valori patriarcali, che inevitabilmente finiscono per manipolare la nostra mente, facendosi portatori di pregiudizi negativi contro la donna
In questi ultimi anni, mentre da una parte si assiste all’ascesa sociale di donne che faticosamente conquistano cariche e ruoli di prestigio, dall’altra il continuo stillicidio di donne uccise dalla mano assassina di mariti e compagni sottolinea come sempre più spesso gli appartenenti al sesso maschile vogliano ribadire con la violenza la loro “atavica” superiorità. Una superiorità che, purtroppo, viene legittimata anche dalla nostra lingua, ricca di forme sessiste e di valori patriarcali.
Da anni ormai gli studi di sociolinguistica hanno ampiamente dimostrato come il linguaggio rivesta un ruolo fondamentale nella costruzione sociale della realtà e, quindi, anche nell’identità di genere maschile e femminile. Così, a partire dalla fine degli anni Sessanta, con il risveglio della coscienza femminista, si è cominciata ad acquisire, attraverso un’analisi attenta della nostra lingua, la consapevolezza di come le forme sessiste finiscano per manipolare la nostra mente, facendosi portatori di pregiudizi negativi contro la donna. A mettere in evidenza il sessismo presente nella nostra lingua fu in particolare nel 1987 un volumetto di Alma Sabatini intitolato Il sessismo nella lingua italiana.
Tale opera venne pubblicata dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri con l’intento di tentare raggiungere anche la parità dei sessi in ambito linguistico senza, tuttavia, riuscirci pienamente a distanza di decenni. Lo studio ha rilevato come attraverso le forme linguistiche si continui a percepire la donna come essere inferiore all’uomo. La lingua italiana, come molte altre, è basata su un principio androcentrico: l’uomo è il parametro intorno a cui si organizza tutto l’universo linguistico. La stessa parola “uomo” si riferisce sia al maschio della specie sia alla specie stessa, mentre la parola “donna” soltanto alla femmina della specie. Inoltre, il principio del maschile non marcato caratterizza tutta la lingua, poiché qualsiasi sostantivo maschile può ugualmente rappresentare i due sessi o il solo maschile. Purtroppo, l’uso frequente del maschile neutro con la sua ambiguità finisce per occultare la presenza delle donne in molti contesti. L’influenza dell’andromorfismo è presente persino nel linguaggio della religione che ci dà l’immagine di una divinità maschile piuttosto che asessuata.
Di contro grammatici e linguisti respingono affermano che il genere grammaticale ed il sesso non vanno confusi, essendo due fenomeni completamente separati. Tuttavia, non si può negare che di frequente le parole riferite a persone di sesso maschile siano di genere maschile e quelle che riguardano le donne appartengono al genere femminile. Eppure nella lingua italiana in concomitanza con l’uso ambiguo della parola uomo e con quello di sostantivi maschili con valore generico si trova anche l’utilizzo di nomi come fratelli, fratellanza, fraternità, paternità con valore non marcato. Inoltre, vige una regola grammaticale che impone la concordanza al maschile di aggettivi, participi passati con serie di nomi femminili e maschili, determinata dalla sola presenza di un nome maschile, mentre per la concordanza di nomi di oggetti inanimati si prevedono anche altre soluzioni come l’accordo con l’ultimo nome. Anche la precedenza del maschile nelle coppie oppositive uomo/donna è indice del sessismo presente nella nostra lingua. A riprova del pregiudizio negativo che tale regola perpetua nei confronti delle donne si potrebbe anche rilevare una coincidenza con la regola d’uso secondo la quale nelle coppie oppositive positivo/negativo si dà generalmente la prima posizione al positivo, come nella coppia “il buono e il cattivo”.
Infine, occorre sottolineare la mancanza di una forma femminile per determinate professioni e cariche, nell’ambito delle quali o la forma femminile manca completamente o viene formata con suffissi riduttivi, come “-essa”. Sicuramente ciò deriva dalla netta divisione dei ruoli tra i sessi nella società, che ha sempre visto la donna ricoprire il ruolo di angelo del focolare. Nel campo delle professioni le parole sono così varie e spesso anche contrastanti da provocare confusione nei parlanti che le utilizzano indifferentemente, talvolta anche senza riflettere.
In genere si utilizza il titolo al maschile e ciò avviene anche nei casi in cui il femminile esiste ed è normalmente impiegato in tutti gli altri registri linguistici, come nelle cariche di senatore, amministratore, direttore. Inoltre, anche con nomi che hanno una forma uguale al maschile e al femminile si usa spesso l’articolo maschile, quando si tratta di occupazioni o cariche di prestigio, ad esempio nel caso del Presidente della Camera Laura Boldrini.
Ancora molto frequente è l’uso del modificatore donna anteposto o posposto al nome base, come donna sindaco, donna ministro, donna magistrato, oppure l’aggiunta al titolo maschile del suffisso derivativo “-essa”, che ha assunto nel tempo una connotazione spregiativa. Tale connotazione si è solo attenuata in alcuni nomi di professioni come dottoressa o professoressa, grazie alla presenza sempre più frequente delle donne nei campi della medicina e dell’insegnamento. Il suffisso “-essa” è così tanto usato che viene spesso applicato anche in casi in cui le regole stesse dell’italiano non lo prevedono, come in vigilessa o presidentessa, in luogo delle forme corrette vigile o presidente. Questi due sostantivi sono epiceni, cioè ambigenere, e, quindi, per formare il femminile basterebbe cambiare l’articolo, ma l’abitudine è dura a morire nell’uso dei parlanti. Diverso è il caso di avvocatessa contro avvocato, in cui, come per gli altri participi passati, la radice dovrebbe essere seguita dalle dalla desinenza “a” per il femminile e da quella “o” per il maschile. Tutte queste forme non fanno altro che ribadire come dal genere maschile si formi il femminile, esattamente come nel libro della Genesi si narra che Eva sia nata da una costola di Adamo a sancirne l’eterna sottomissione.
Flaviana Gullì