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I ragazzi di via Panisperna: una generazione di fenomeni

Era una “banda” di giovani scienziati italiani che nei primi anni ’30 del Novecento rivoluzionò il mondo della Fisica, prima di disperdersi in strade differenti e iniziare, ognuno per proprio conto, una nuova incredibile vita anche al singolare.

 

Quando un argomento comincia con la frase “I ragazzi di …”, siamo già sicuri che stiamo entrando in una narrazione letteraria e nell’immaginario della gente. I ragazzi della via Pal, per esempio, o quelli dello Zoo di Berlino, per rimanere tra i libri e nei film omonimi. Poi I ragazzi del ’99, la più sfortunata generazione del secolo breve, disintegratasi nella Prima Guerra Mondiale. Ancora, I ragazzi di Barbiana, alunni della scuola “eretica” di don Milani e autori della famosa Lettera a una professoressa del 1967.

Se vogliamo andare leggeri, ci sarebbero anche I ragazzi del muretto, non tanto la serie televisiva andata in onda su Raidue dal ‘91 al ’96, quanto la stessa locuzione che l’ha ispirata, cornice di un’ambientazione tipicamente giovanile. Di contro, sempre navigando nell’adolescenza e nelle sue mille facce, giocando sulla sostituzione del “di” con un “che” e certamente un po’ forzando, non possiamo non ricordare I ragazzi che si amano, spettacolare e attualissima poesia di Jaques Prévert del 1951 (Les enfants qui s’aiment).

I giovanotti di via Panisperna, invece, erano poco più che adolescenti – in un’epoca in cui l’adolescenza non era stata ancora inventata e men che mai era divenuta brand commerciale – quando cominciò la loro storia di scienziati assoluti. In quella strada dal nome molto strano, al rione Monti a Roma, al Regio Istituto di Fisica dell’Università, sul finire degli anni ’20, inizi ‘30, accadde uno di quei fatti a volte frutto di circostanze irripetibili; qualcosa che andò oltre la normalità del quotidiano, cui pure attinse, per riversarsi nella Storia.

Avvenne, cioè, che un giovane genio dalle infinite capacità teorico-pratiche, non a caso detto “il Papa”, supportato da un mentore anziano e illuminato, si circondò di apprendisti scienziati ancor più giovani di lui, provenienti da varie parti d’Italia. Alcuni erano specializzati in campi precisi, uno – forse – era persino più geniale del capo. Non ci resta che fare i nomi e dare i numeri di maglia alla squadra.

Il “capobanda” era Enrico Fermi, ventottenne, romano, padre del Nord e madre del Sud, un vero esempio di come dovrebbe essere mischiata la genetica italica per produrre risultati eccellenti. A venticinque anni già ordinario di Fisica Teorica, prima cattedra in Italia. Fra i tredici e i diciassette, età nella quale era entrato come primo in graduatoria alla Scuola Normale Superiore di Pisa, leggeva come fossero fumetti, trattati di calcolo infinitesimale, trigonometria, fisica, meccanica, geometria analitica. Preferibilmente non in italiano. Dopo la laurea, ovviamente breve, nel senso che la conseguì a ventun anni, in tempi ancora senza Erasmus, se ne andò fuori dall’Italia. In particolare a Gottingen, in Germania e a Leiden, in Olanda, dove ebbe modo di conoscere alcuni fra i più importanti fisici europei del tempo, fra cui Albert Einstein.

Fermi non era solo uno scienziato immenso; fu, come si direbbe oggi, un predestinato, anzi in questo caso “il prescelto”. Uno che sapeva cosa voleva e che non le mandava mai a dire (sempre con educazione). Nel 1926 poco prima dell’ordinariato, a Paul Dirac (quello dell’equazione tanto celebrata sui social network e già fisico notissimo, malgrado fosse più giovane di un anno) ricordò in una lettera che la proposta su una “teoria del gas ideale”, pubblicata quell’anno dall’inglese, lui l’aveva data alle stampe, quasi uguale, già l’anno prima. La firma finale: “Sinceramente suo, Enrico Fermi”, esprime meglio di mille commenti la sua capacità di essere autorevole in tutti i contesti. Compreso quello del premio Nobel, ottenuto nel 1938 per le scoperte sulle reazioni nucleari, coadiuvato dai suoi ragazzi. Morì di cancro negli Stati Uniti nel 1954.

Il mentore “anziano e illuminato” del giovane Enrico e dei suoi ragazzi, fu Orso Mario Corbino, siciliano di Augusta, classe 1876. Si pronuncia anziano, ovviamente considerando il contesto. Quando la squadra di via Panisperna cominciò a radunarsi, facendo convergere a Fisica molti aspiranti ingegneri, Corbino aveva appena cinquantatré anni, un’età in cui – nella realtà attuale – il cosiddetto genere maschile spesso non è ancora uscito dall’effetto adolescenza e i laureati italiani dal cognome sconosciuto latitano tra gli incarichi universitari precari. Di Corbino il mentore, si parla sempre troppo poco o quasi nulla; invece fu decisivo nell’esperienza del Regio Istituto e per i risultati scientifici del capobanda e dei suoi ragazzi.

Anche lui era stato un brillantissimo scienziato-ragazzo. Laurea a Palermo a soli vent’anni; cattedra di Fisica Sperimentale a Messina a ventotto. Subito dopo si sposta a Roma, dove si avvicina alla politica. Presidente del Consiglio Superiore delle Acque e dei Lavori Pubblici, Senatore del Regno a quarantaquattro anni e due volte ministro; nel 1918 ottiene la cattedra di via Panisperna tenendola sino alla morte, nel ’37. Corbino fu una sorta d’ideologo per il gruppo Fermi; un sicuro punto di riferimento; il paracadute ai fatti esterni del mondo, finché fu possibile; un procacciatore di finanziamenti, nell’ambito del suo ruolo e per la personale conoscenza con il capo del governo, Mussolini.

Coetaneo di Fermi (1901), amico strettissimo e compagno di studi alla Normale, era invece Franco Rasetti da Pozzuolo Umbro. Anche lui laureato ventunenne, entrò nel gruppo nel 1930 ottenendo la cattedra di Spettroscopia. Con l’amico di sempre condividerà tutto il percorso scientifico e la fuga dall’Italia quando le sciaguratissime leggi razziali fasciste del 1938 costrinsero Fermi (la cui moglie era ebrea) ad andarsene dal suolo patrio verso gli Stati Uniti. Pure Rasetti si stabilì oltre oceano, ma non partecipò, come l’amico, al Progetto Manhattan che porterà alla costruzione dell’atomica. Si dissociò in seguito anche dalla fisica, tornando ai primi amori della paleontologia e della botanica dove ottenne grandissimi risultati. È morto centenario nel 2001, con meno fama mediatica intorno rispetto agli altri ex ragazzi.

Emilio Segré da Tivoli, era nato nel 1905. Farebbe strano oggi vedere uno studente di ventitré anni laurearsi con un maestro di ventisette, ma questo fu, nei fatti, il rapporto tra Fermi e Segré. Nel ’28 l’allievo ebbe già una cattedra, anche se dovrà aspettare il 1935, da anziano trentenne, per diventare ordinario. Da subito inserito nel gruppo dei ragazzi, quando il “governo” deciderà che gli ebrei non dovevano avere più posto in Accademia e nel Paese, nel 1938, lui – ebreo – si trovava già all’University of Berkeley per degli studi. Non tornò più. Gli americani se lo tennero stretto. Raggiunto da Fermi, lavorò anch’egli al Progetto Manhattan; in seguito insegnò alla Columbia e, nel 1959, ottenne il Nobel per la scoperta dell’antiprotone, già da naturalizzato statunitense. È morto lì, in America, nel 1989, ma le sue spoglie sono a Tivoli.

Oscar D’Agostino era “il chimico”. Buttata giù così sembra un po’ una trascrizione da verbale di polizia, ma in effetti quello fu il ruolo del ragazzo proveniente da Avellino. Coetaneo di Fermi e Rasetti, era una figura certamente atipica all’interno di quel gruppo di soli fisici. Si propose a Fermi da assistente volontario e se dovessi immaginare un dialogo sceneggiato fra i due, vedrei l’Enrico guardare Oscar e sentenziare con aria sicura: «Bene, preso; c’è sicuramente bisogno di un chimico nella banda». Fu evidentemente persona più defilata rispetto agli altri. Dopo la Seconda Guerra Mondiale rimase in Italia e divenne funzionario pubblico, prima al CNR, poi all’Istituto Superiore della Sanità. È morto nel 1975.

Edoardo Amaldi, invece, era un giovanissimo tra i giovani. Nato a Carpaneto Piacentino nel 1908, si aggregò subito alla compagnia. Fu l’unico di quei fisici a restare in Italia. L’onda lunga della banda di via Panisperna la riversò nel dopoguerra nella costituzione dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (INFN) e nei contributi per il Centro Europeo di Ricerche Nucleari di Ginevra (CERN) e per l’Agenzia Spaziale Europea (ESA). Tutti risultati notevoli, che però lasciano l’amaro in bocca, almeno qui da noi, per ciò che poteva essere e non è stato. Ricordo di aver studiato Fisica allo Scientifico su un suo libro. Allora, per il diciassettenne che fui, ignaro di molte cose, il suo nome era unicamente quello dell’autore. Poiché non si finisce mai di imparare, ho piacevolmente scoperto la storia di quegli incredibili ragazzi solo qualche anno dopo. Morì nel 1989.

Il più giovane di tutti fu però Bruno Pontecorvo, un ragazzino del 1913, da Marina di Pisa. Anch’egli tra i laureati di Fermi, appena ventunenne, nel 1934; aggregato immediatamente all’Istituto, quasi subito se ne distaccò trasferendosi a Parigi. Dopo lavorò negli Stati Uniti, in Canada e in Inghilterra, dove prese persino la cittadinanza. Ebreo pure lui e fratello del noto regista Gillo, Leone d’Oro a Venezia, due David e quattro nomination all’Oscar, fedele alla sua ideologia comunista divenne famoso nel mondo per il trasferimento volontario in Unione Sovietica nel 1950, con tanto di cambio di nome (Bruno Maksimovič Pontekorvo) per continuare la sua attività. I suoi contributi nell’astrofisica e le sue indagini sui neutrini hanno aperto il campo a molti altri studi di diversi scienziati poi diventati premi Nobel. È morto in Russia nel 1993; le ceneri divise equamente, per sua volontà, fra i due stati.

Ultimo della lista, ma primo nell’immaginario, rimane il ragazzo per eccellenza: Ettore Majorana, catanese del 1906, nato da una famiglia illustre i cui componenti avevano ricoperto varie cariche anche congiunte di ministro, rettore, senatore e deputato; il padre era ingegnere. Genio matematico assoluto, risolutore di problemi, personaggio complesso e oscuro per certi versi, ironico e solare per altri, valgono sopra ogni cosa per lui le parole di Fermi, con cui si laureò ventitreenne: lo paragonò nientemeno che a Galileo e a Newton!

Come tutti quelli che spariscono senza che se ne sappia più nulla, dal 26 marzo del 1938 Majorana vivrà per sempre in doppio. Da un lato lo scienziato con i suoi lasciti scientifici di cui solo in parte è nota o studiata la portata; colui che si confrontò di persona con Werner Heisenberg a Lipsia e Niels Bohr a Copenhagen, due fra i più importanti fisici del tempo; dall’altro il personaggio, oggetto d’indagini immediate di polizia e poi di quelle, al limite del poliziesco, di scrittori, giornalisti, curiosi e, da ultimo, degli esaltati della Rete. Una cosa è certa: Majorana non è mai morto né mai morirà. La sua avventura, il fascino e il mistero della sua figura, sono e saranno sempre vivi tra noi.

L’intensissima stagione scientifica dei ragazzi di via Panisperna volse al termine dopo pochi anni. La morte di Corbino nel ‘37 fece cadere del tutto l’ombrello protettivo politico; le vie delle loro ricerche si stavano comunque già diversificando. Le leggi razziali fecero il resto, anche se Fermi da grande organizzatore qual era, non partì affatto per gli Stati Uniti come uno scappato di casa. Lui era Fermi, il migliore. Le porte dei laboratori statunitensi gli si aprirono senza alcuna parola magica che non fosse il suo nome. Di là dal fatto che fuggiva per la degradata fase politica, dal suo punto di vista di ricercatore, poter lavorare nei migliori laboratori al mondo era di certo il più giusto obiettivo di vita.

Quei ragazzi che convennero a Roma da varie parti della Nazione e che per colpe di altri non riuscirono a costruire una grande Scuola Nazionale di Fisica, furono una vera e propria generazione di fenomeni, ma in quel preciso momento storico non erano da soli. Il concetto di studio e ricerca all’epoca era molto diverso dall’attuale. Certamente ancora elitario, aveva però come prassi, l’accesso in giovane età ai livelli più alti del sapere e ai risultati effettivi. Scorrendo i nomi dei maggiori fisici europei del tempo (ma lo stesso potremmo fare in altri campi), stupisce infatti la loro incredibile precocità anche nei riconoscimenti ottenuti.

Posto infatti che Fermi ebbe il Nobel a trentasette anni e Segrè a cinquantaquattro, Marie Curie se lo vide assegnare a trentasei, Arthur Compton a trentacinque e Niels Bohr a trentasette. Nulla a che vedere, però, con i già citati Paul Dirac e Werner Heisenberg che ottennero il premio addirittura a trentun anni. A ben guardare i più anziani furono il quarantacinquenne Wolfgang Pauli e il quarantaseienne Erwin Schrödinger. Ovviamente ci furono anche le eccezioni, ma infatti le chiamiamo eccezioni proprio per questo.

Di quegli incredibili ragazzi e della loro fame di scienza ci restano le scoperte e la narrazione delle loro vite. In conclusione, ci piace associare la loro affamata attività di scienziati a una delle due interpretazioni che gli storici hanno dato al termine Panisperna, quella strada dal nome molto strano in cui si trovava l’Istituto dove lavorarono. Panis et perna erano, infatti, il pane e il prosciutto mangiati a profusione in una festa popolare dell’antica Roma che si teneva, all’epoca, proprio in quei luoghi.

 

Francesco Galletta

 

[Nella foto, da sinistra: Oscar D’Agostino, Emilio Segrè, Edoardo Amaldi, Franco Rasetti, Enrico Fermi]

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