VITA DA MIGRANTI…METTIAMOCI NEI LORO PANNI
La storia di Laila
Ciao, mi chiamo Laila. Lavoro dall’alba al tramonto in un campo, coltivando e raccogliendo pomodori.
Sono venuta in Italia solo per lavorare e sperare in un futuro migliore, anche se lontano dal mio paese e dai miei affetti. Sento tanta nostalgia della mia amata terra e dei miei cari. Ogni tanto riesco a racimolare qualche soldo da mandare alla mia famiglia, ma è davvero ben poca cosa. Il mio guadagno è misero e la fatica è tanta. Vivo in una baracca che divido con altri sfortunati come me. In ogni istante il mio pensiero vola lontano alle cose più care…Ricordo quando la sera, prima di partire, giocavo con i miei figli e li abbracciavo ad uno ad uno. Chissà cosa staranno facendo? Mi metto a piangere ogni volta che ci penso…ma devo farmi coraggio: un giorno tornerò da loro.
Samanta
La storia di Nala
Ciao solo Nala, vengo dall’Africa, da un paese un po’ arido per sei mesi l’anno e un po’ piovoso per gli altri sei. Sono arrivata in Italia attraversando il mare su un grosso gommone giallo fosforescente con delle strisce nere. Io non volevo salirci perché mi sembrava poco sicuro, inoltre il mare era molto agitato e minacciava tempesta, ma mi hanno costretto. Ora vivo qui e, per fortuna, ho trovato un lavoro. La mia vita non è difficile economicamente, riesco persino a mandare qualcosa a casa, però la gente mi isola perché non so parlare bene la vostra lingua. Molti mi ignorano con indifferenza, altri mi prendono in giro e mi maltrattano. A volte ho persino paura ad uscire perché temo che mi facciano del male…
Ho tanta nostalgia della mia casa, della mia mamma, del mio papà, dei miei fratellini, tutti più piccoli di me.
Quando vedo ai margini del marciapiede un filo di erba secca mi viene da pensare alla mia amata savana. Mi chiedo se riuscirò mai a tornare a casa per rivedere i miei cari e correre libero e felice nell’immensa distesa erbosa che è stata testimone dei miei giochi d’infanzia.
Vittoria
La storia di Abdullà
Sono Abdullà, sono africano e sono stato costretto a salire su dei barconi che sembravano rottami per venire qua: mi hanno puntato i fucili addosso! Lì dentro eravamo stretti, stretti. Ho visto morire tante persone e anch’io ho avuto tanta paura. Ora che sono in Italia mi fanno fare il “vu cumprà”: ogni giorno porto palloncini e giocattoli in giro per le strade e d’estate percorro la spiaggia sotto il sole cocente cercando di vendere asciugamani, salvagenti e tanto altro.
La sera vado nella piazza del paese cercando di vendere la mia merce tra l’indifferenza della gente e la notte cerco rifugio per dormire sotto un ponte o su una panchina. La stanchezza mi pesa ma mi addolora ancora di più essere lontano dalla mia terra e dai miei cari. La nostalgia è il mio dolore più grande.
Alberto
La storia di Malele
Mi chiamo Malele e sono venuta in Italia in cerca di una vita migliore. Al mio paese tessevo tappeti a mano. Bisogna essere bravi, sapete, a intrecciare i fili fino a creare meravigliosi disegni. Ma mi pagavano troppo poco così ho deciso di rischiare tutto per tutto e, dopo un viaggio lungo e difficoltoso, sono giunto in Italia con una valigia carica di sogni e di speranze che si sono subito spezzati a contatto con la dura realtà. Qui tutti mi trattano male, perché non parlo bene l’italiano e sono scuro di pelle.
Mi manca lamia terra, mi manca giocare con i miei nipotini, correre libero e felice nella savana e scrivere poesie all’ombra di uno dei rari alberi che in essa crescono alti e maestosi.
Il viaggio per mare è stato duro, lungo e pericoloso. Per fortuna io stavo proprio al centro del barcone, ma alcuni, a causa delle tempeste sono annegati. Mi manca la mia terra, vorrei essere lì. La gente mi maltratta, non sa, non si rende conto che se non fosse stato per la guerra e la carestia non avrei mai lasciato il mio paese. Andare via dalla propria patria, separarsi dalle persone a cui si vuole bene è un po’ come strappare le radici a un albero, partire è un po’ morire dentro…
Marta
La storia di Shila
Mi chiamo Shila e vengo dal Congo. Sto qui in Italia con il mio papà che lavora in un cantiere.
Io vado a scuola. Frequento la terza della scuola primaria. Spesso mi sento a disagio perché ancora non parlo bene l’italiano e alcuni miei compagni mi prendono in giro, anche se la maestra spiega loro che non è giusto…Ho molta nostalgia della mia terra. La domenica, unico giorno in cui il mio papà non lavora, andiamo nei parchi e lì parliamo della nostra savana e ricordiamo con nostalgia le gazzelle, le zebre, le giraffe e persino le scimmie che si arrampicavano sui baobab. Ricordiamo le feste della tribù, i balli intorno al fuoco e le stelle che lì sembravano più numerose e luminose. Sembra tutto così lontano!
Io spero che un giorno la gente capisca che, al di là del colore della pelle e della diversa provenienza, siamo tutti uguali e che finalmente ogni forma di razzismo venga eliminata dalla faccia della terra. Allora sì che ogni paese sarà la nostra amata patria.
Chiara M
La storia di Bakumbù
Io Bakumbù ho 33 anni e ho fatto un lungo viaggio per arrivare qui in Italia. Quando lasciammo le coste africane sul fragile e affollato barcone che ci avrebbe trasportato mi girai e vidi sulla costa la mia famiglia: non riuscii a trattenere le lacrime.
Ora che sono in Italia non ho alcun lavoro fisso, sto vicino all’uscita dei supermercati a vendere fazzoletti o ai semafori degli incroci cittadini a tentare di lavare qualche vetro per racimolare qualche soldo. A volte chiedo l’elemosina girando per le vie della città…La sera, anche se siamo in tanti a dormire in una misera baracca, io mi sento tanto solo…solo la speranza in un futuro migliore mi dà la forza di andare avanti…
Gianmarco
La storia di Saul
Sono Saul, vivevo in Africa con mia moglie e i miei due figli. Facevamo una vita dura, piena di sacrifici, ma non ci lamentavamo. Un giorno scoppiò la guerra tra tribù rivali e con essa la carestia.
Dopo tanti dubbi e ripensamenti decisi di tentare il lungo viaggio che mi avrebbe portato in Europa e che, speravo, mi avrebbe permesso di offrire un futuro più sereno alla mia famiglia. Insieme a tanti altri disperati come me camminai a lungo sotto il sole cocente del deserto. Giunto in Libia, sulle coste del Mediterraneo venni rinchiuso in un campo profughi, dove ci maltrattavano e ci umiliavano. Finalmente ci dissero che era giunto il momento di partire e con un misto di paura (tanta) e di speranza (poco) salii su un barcone malandato. Vidi persone morire, anche donne e bambini: fu un’esperienza traumatizzante.
Ora in Italia faccio il contadino: raccolgo pomodori dall’alba al tramonto per una misera paga. Dicono che noi veniamo a rubare il lavoro…Ma sono pochi gli italiani disposti a faticare come noi immigrati siamo costretti a fare. Certo tra noi ci sono anche i pigri, i furbi e gli attaccabrighe, come in tutti i paesi del mondo…ma non siamo tutti così!
Quando la sera torno nella mia baracca, dove vivo insieme ai maiali, mangio quel po’ di cibo che mi danno e mi sdraio sulla paglia, ma non riesco a prendere sonno: temo di non riuscire a rivedere i miei cari. È da tanto che non vedo la mia amata terra.
Lettera di un immigrato africano
Adorata moglie mia, è dura la vita qui dove oltre a faticare per una miseria non sei nemmeno considerato un uomo e vali meno di una macchina di lusso o di un orologio di marca. Mi manca il mio paese e la mia gente, ma soprattutto mi manchi tu, mi manca il tuo conforto quando mi sento schiacciato dal peso della nostalgia e mi manca il tuo dolce sorriso. Abbraccia da parte mia i nostri bambini e ricorda loro che il papà, anche se è lontano li porta sempre nel cuore. Ho molta nostalgia per la mia terra, dove tutti sono cordiali e dove ci siete voi, vi penso in ogni istante della mia giornata e nessuno sa quanto piango la sera quando mi siedo a tavola da solo per mangiare. Ogni sera, al tramonto, vado sulla spiaggia e, tra le splendide onde del mare, vedo i vostri sorrisi e quando il vento accarezza delicatamente il mio viso pieno di lacrime ricordo la leggera brezza carica di odori e di profumi della mia terra lontana e mi sembra di essere lì nel mio amato paese, con voi, lontano dalla gente che mi umilia e mi disprezza. Il sole del mattino che mi risveglia all’alba del nuovo giorno è per me il simbolo della speranza di una vita migliore…