lunedì, Dicembre 23, 2024
Cultura

AAA cercasi… dignità e diritti umani

La dignità umana è un valore culturale che fonda tutti i valori dell’essere umano, compresi quelli etici.

È in sé e per sé un principio etico fondamentale.

Non esiste essere umano la cui vita non sia degna di essere vissuta e rispettata.

Nessun diritto umano può essere riconosciuto se viene scisso dal riconoscimento della dignità umana, in quanto valore  inviolabile, intoccabile ed indisponibile. La sacralità della vita umana, prima di essere un dato di origine religiosa, è un dato ontologico, ossia, è dell’essere umano in quanto tale. Ogni essere umano è sacro, perché la sua vita è sacra e per essa ogni diritto umano.  Riproponendo il pensiero di Immanuel Kant, è importante riscoprire che ogni essere umano si trova sotto la stessa legge, quindi dovrebbe trattarsi, ed essere trattato da chiunque altro essere umano, come un fine in sé e, mai come un mezzo. Da questo principio kantiano, U. Scarpelli, filosofo del diritto, richiama il principio di tolleranza (rispetto della libertà dell’altro) ed il principio del non danneggiare l’altro (rispetto dell’integrità dell’altro), i quali, entrambi, scaturiscono dal principio etico della dignità umana, in quanto valore assoluto. Se rispettare ogni essere umano significa riconoscere che la sua dignità va tutelata, allora la tutela dell’integrità della vita fisica di ogni essere umano, diventa contemporaneamente un diritto civile, di cui il soggetto è titolare, ed un dovere giuridico. Se così è, ogni essere umano, dovrebbe accogliere, considerare e trattare gli altri in modo tale che ognuno possa riconoscere, conservare e difendere la propria dignità.

La dignità dell’essere umano, in quanto principio del diritto, allora, sta a fondamento di tutta la vita sociale regolata da diritti-doveri giuridici. Il rispetto della propria vita fisica ed il rispetto dell’altrui vita, sono come due facce di un’unica moneta che non si chiama euro, bensì dignità umana! La dignità umana è un valore, un principio etico, un diritto e un dovere giuridici, così intimamente connessi tra loro e alla vita fisica dell’essere umano, da poter affermare che essere umano, persona umana e dignità si legano tra loro indissolubilmente. La vita umana è la sua dignità.

Le mie considerazioni potrebbero non essere condivise da tutti e, non lo sono infatti da tanti. Sulla assolutezza del valore dell’essere umano, in quanto persona ed inseparabile dalla sua dignità, da tempo esistono molti dibattiti in sedi accademiche e, sono certa che, non si spegneranno nel nostro tempo in cui si diffonde l’opinione che la vita umana perda valore e dignità di fronte alla profonda sofferenza o quando “fisicamente” diventa per sé o per gli altri insopportabile.

Fino a qualche tempo fa si ammetteva “pacificamente” che era persona “ogni” essere umano e “solo” l’essere umano. I due termini “persona” ed “essere umano” erano coestensivi, ossia, dove c’era un essere umano, là c’era una persona. Ma, a partire dalla prima metà del ‘900, nel pensiero di alcuni personaggi noti alla storia e letteratura della bioetica, si affaccia una “scissione” tra essere umano e persona. Alcuni pensano ed affermano l’esistenza di esseri umani che non sono persone, ed altri che esistano persone che non sono esseri umani. Ossia, per alcuni ci sarebbero individui umani che in determinate condizioni fisiche e psichiche non si possano (più) considerare persone mentre lo sarebbero animali particolarmente evoluti.

Engelhardt

Per Hugo T. Engelhardt, filosofo statunitense di origini tedesche e di orientamento decisamente utilitarista, l’essere umano è persona degna di vivere solo ed esclusivamente quando è utile a sé stesso ed alla società. Questi, dice espressamente che non tutti gli esseri umani sono persone, ad esempio, feti, infanti, ritardati mentali gravi e coloro che sono in coma. Anche Peter Singer, pensando la persona in una prospettiva utilitaristica, la definisce come essere dotato di razionalità, autocoscienza e capacità di provare piacere e sentire dolore. Per questo filosofo morale australiano, un essere umano non può più essere considerato persona se non ragiona più, se non è più autocosciente, se non prova più piacere, né sente più dolore.

 

 

 

P. Singer identifica la persona umana con l’esercizio attuale delle sue qualità umane. Pertanto, quando un essere umano non è in grado di attuare le sue qualità o non può più metterle in atto, smetterebbe di essere persona.

Credo che il pensiero singeriano sia ancora vivo e molto presente nella nostra cultura, ed in particolare, in quella giovanile. Sarà conseguenza del cosiddetto pensiero debole -introdotto da Gianni Vattimo e Pier Aldo Rovatti, massimi esponenti del postmodernismo europeo- e che ha prodotto un mutamento etico nel modo di concepire la filosofia?  Oppure, come lascia

Singer

intendere Papa Francesco, quel pensiero che ha iniziato a diffondersi nel XX secolo è anche padre della dilagante cultura dello scarto e del provvisorio, in cui non si riconosce più il valore della vita umana, dal concepimento e fino alla morte naturale? Eppure, pensarla come Peter Singer significherebbe che anche gli embrioni, i neonati, gli infanti, non siano persone, oppure che gli ubriachi o coloro che dormono smettano temporaneamente di essere persone! Ma l’essere umano che non attua la razionalità (capacità di ragionare) non è persona? L’essere umano che non attua l’autocoscienza (sapere di ragionare) è senza dignità umana? La vita umana che non prova piacere o non può sentire dolore o che non può mettere in atto la sua libertà (facoltà di autodeterminazione e di scelta) può essere soppressa in nome di un “diritto a morire”? E può coesistere il “diritto” alla vita, fondato sul riconoscimento della “dignità umana” e fonte di ogni diritto umano, con il “diritto a morire”? È un diritto “vivere” oppure è un diritto “morire”?

Qualcuno, a questi interrogativi, risponde con un “Si! possono coesistere perché entrambi sono diritti dell’uomo!” Io, invece, credo che, secondo la “legge naturale”, la vita umana sia sorgente e fondamento (dignità umana) di ogni diritto umano e che comprenda il morire non come “diritto dell’uomo” ma come dato naturale dell’essere umano che è, in natura, essere “mortale”. Credo che la soppressione della vita umana sia soppressione di un soggetto umano e negazione della sua dignità: uccidere un essere umano (omicidio), consentire ad altri di metter fine alla propria vita fisica svestita di dignità umana (eutanasia attiva e passiva), sopprimere la propria vita fisica ritenuta priva di senso (suicidio e suicidio assistito) non è un “diritto dell’uomo”, perché alla dignità umana, indissolubilmente congiunta al principio della indisponibilità della vita fisica, è sottratta la sua inviolabilità ed intangibilità da un soggetto umano che agisce contro la legge naturale e, dunque, contro la sua stessa natura umana. È infatti un dovere giuridico, fondato sul diritto naturale di essere e di esistere, tutelare la vita umana, la sua integrità, la sua stessa dignità.

Nel XXI sec., la massimizzazione del piacere e la minimizzazione del dolore, dentro un arcipelago culturale in cui prevalgono “relativismo etico” ed “edonismo”, pongono sempre più ai margini quella visione dell’uomo di tipo personalista in cui l’essere umano è compreso come essere unitario pluridimensionale, una unitotalità le cui dimensioni sono strettamente connesse, inseparabili e si condizionano reciprocamente. Persona e personalità, in un unico ed irripetibile essere umano, sono distinte, senza separazione, né confusione. La persona è personalità in potenza e la personalità è persona in atto. Infatti, l’essere umano in quanto personalità in potenza (persona) si compie attraverso atti, mentre la personalità, in quanto persona in atto, si evolve nel modo che è conforme alla sua natura. Secondo la teoria personalista ogni essere umano è persona in quanto essere razionale, autocosciente e libero. È giusto dire, come P. Singer, che dove ci sono razionalità, autocoscienza e libertà c’è la persona, ma le operazioni della persona, ossia, ragionare, sapere di ragionare e scegliere, indicano la persona ma non s’identificano con essa. La persona rimane il “soggetto” delle operazioni ma esse si distinguono dal loro soggetto. La persona in quanto “soggetto” è essa stessa “in” esse, in quanto agisce “per mezzo” di esse ma è anche “oltre” esse. Anche se non messe in atto, le potenzialità sono qualità proprie e specifiche di un soggetto umano, che si appoggia su sé stesso, che esiste in sé e per sé e quindi è persona umana. La persona non s’identifica con i suoi atti, ma è la fonte ed il principio dei suoi atti che esprimono le sue potenzialità. La persona non è dunque l’atto dell’autocoscienza e della razionalità, ma è il principio sostanziale e permanente da cui scaturiscono le operazioni dell’autocoscienza e della razionalità. Questo significa che l’autocoscienza e la razionalità sono della persona non come “atti”, ma come “possibilità” che si traducono in atti quando ci sono tutte le condizioni richieste perché esse possano attuarsi. Pertanto, la transizione da potenza ad atto non muta mai la natura di un essere, ma porta piuttosto alla piena manifestazione di ciò che esso è.  Seguendo le sue potenzialità attive intrinseche, un essere può divenire soltanto ciò che è in sé, per sua natura.

È questo il principio generale che fonda l’antropologia e la bioetica di indirizzo personalista: nulla può diventare una persona senza già essere una persona.  È evidente, a questo punto, che nella prospettiva personalista la “scissione” tra essere umano e persona, tra persona e dignità umana non può esistere, quindi sembrano non esserci problemi, dato che ogni essere umano è persona umana in sé e per sé degna di essere rispettata e tutelata nella sua integrità. Ma nell’ambito della bioetica e della biomedicina, oggi permangono, comunque, diverse opinioni che si possono individuare in due orientamenti: l’orientamento riduzionista, che teorizza la separazione dell’essere umano dalla persona e dalla vita umana e, l’orientamento personalista che giustifica un’unica identità di essere umano e persona umana.  Soffermandoci a riflettere sulla tendenza riduzionista, possiamo dire che in essa, l’inizio della vita umana non è riconosciuta fin dal concepimento. La singamia (fusione tra i gameti maschile e femminile dell’essere umano) non è considerata “l’inizio di un individuo umano in sviluppo che si autocostruisce”. L’orientamento riduzionista, contrariamente all’orientamento filosofico personalista, prende le distanze dall’evidenza scientifica.

Waddington

L’embriologo C.H. Waddington, presidente dell’Unione internazionale delle scienze biologiche dal 1961 al 1967, a tal proposito, afferma che l’analisi induttiva di tutto il processo epigenetico, cioè della “continua emergenza di una forma da stadi precedenti”, permette di rivelare tre proprietà della singamia:

I.Coordinazione: lo sviluppo embrionale, dalla singamia sino alla formazione del disco embrionale, circa 14 giorni dalla singamia, è un processo che manifesta una coordinata sequenza e interazione di attività molecolari e cellulari, sotto il controllo del nuovo genoma;

II,Continuità: nella singamia inizia un nuovo ciclo di vita. Lo zigote è il “primordio” del nuovo organismo, il quale è “al vero inizio” del suo proprio ciclo vitale;

III. Gradualità: la forma finale deve essere raggiunta gradualmente; questa è una legge ontogenetica, una costante del processo di riproduzione gamica che implica ed esige una regolazione che deve essere intrinseca a ogni dato embrione e mantiene lo sviluppo permanentemente orientato, dallo stadio di zigote fino alla forma finale. Precisamente, per questa intrinseca legge epigenetica, scritta nel genoma e che inizia ad operare dalla fusione dei gameti, ogni embrione – e perciò ogni embrione umano – mantiene permanentemente la sua propria identità, individualità e unicità durante tutto il processo dello sviluppo, nonostante la crescente complessità della sua totalità. Il nuovo genoma, unico ed irripetibile, con una precisa individualità somatica di natura trascendente, porta in sé una legge ontogenetica di sviluppo. Il genetista Angelo Serra, afferma che “l’embrione vivente, a iniziare dalla fusione dei gameti, non è un mero cumulo di cellule disponibile, ma un reale individuo umano in sviluppo che si autocostruisce. E sulla base di questi dati della scienza e della riflessione scientifica, una seria antropologia filosofica non può che concludere che l’embrione umano, a iniziare dallo stadio di zigote, ha la stessa dignità e gli stessi diritti di ogni soggetto umano”. Ma nell’orientamento riduzionista – rappresentato sia da alcune convenzioni internazionali (es. il Rapporto di Warnock, 1984) che riconoscono l’inizio di un individuo biologico o della vita umana solamente a partire dalla formazione della “stria primitiva” (14° giorno dalla fecondazione), sia da quanti teorizzano la distinzione tra “pre-embrione” (considerato esclusivamente come un cumulo di cellule che può svilupparsi in due embrioni identici) ed “embrione” (formazione della “stria primitiva” e “mesoderma” da cui inizia la morfogenesi e la organogenesi) – si posticipa l’inizio della vita umana, quella di un soggetto titolare del “diritto alla vita”, ossia della persona e della sua dignità umana. Anche nella “procreazione assistita” – ambito medico in cui si è passati da “assistenza” o “aiuto” della coppia alla procreazione con tecniche e tecnologie mediche intracorporee, alla fecondazione in vitro omologa (Fivo) in cui è coinvolta la coppia,  ed eterologa (Fivet) che richiede il coinvolgimento di una terza persona –  la fecondazione in vitro  (Fiv), nelle sue due applicazioni tecnico-scientifiche, include diversi fattori che chiamano in causa la bioetica medica, la quale non può esimersi dai dati scientifici, né dal rispetto della vita umana e la tutela della sua integrità. Tra questi fattori ne cito solo sette che ritengo sufficienti per stimolare una riflessione comune sull’importanza di riscoprire la dignità della vita umana, evitando di pensare e ridurre il soggetto umano ad un “oggetto” da manipolare o ad un “mezzo” utile e funzionale esclusivamente (egoisticamente?) alla soddisfazione di umani desideri. Nelle attività della fecondazione in vitro di embrioni precoci, scientificamente si evidenziano:

  1. L’insuccesso o alto indice di abortività;
  2. La “produzione” di più embrioni destinati a non essere mai utilizzati o a rimanere congelati (la maggior parte delle legislazioni esistenti non pone limitazioni al numero di embrioni che si può produrre in un procedimento di Fiv. Fanno eccezione la legge italiana e quella tedesca, le quali limitano il massimo numero di ovociti fecondabili e impongono di trasferire tutti gli embrioni concepiti in vitro nell’utero della madre genetica, allo scopo di evitare il surplus di embrioni);
  3. La “selezione” degli embrioni (selezione eugenetica);
  4. Rischi della donna sottoposta a superovulazione indotta (sindrome da iperstimolazione);
  5. Elevato rischio di malformazioni e di malattie congenite (anche questo fattore, incoraggia l’eugenetica!); 6. Effetti economici degradanti (banche compravendita di gameti, embrioni ed utero);
  6. La crioconservazione di embrioni umani che non esclude, nel tempo, una possibile manipolazione genetica e/o l’effettiva eliminazione (anche in questo caso, nei Paesi dei vari Continenti, esistono legislazioni permissive, restrittive o limitative, non permissive).

Gli enunciati antropologici e quelli di carattere bioetico dell’orientamento personalista, si distanziano da quelli dell’orientamento riduzionista. L’antropologia personalista e la riflessione bioetica che da essa scaturisce, è ripresa e confermata nel 2008 in “Dignitas personae”, una Istruzione importante del Magistero della Chiesa Cattolica. In quel documento si riafferma che “L’essere umano va rispettato e trattato come una persona fin dal suo concepimento e, pertanto, da quello stesso momento gli si devono riconoscere i diritti della persona, tra i quali anzitutto il diritto inviolabile di ogni essere umano innocente alla vita. Questa affermazione di carattere etico, riconoscibile come vera e conforme alla legge morale naturale dalla stessa ragione, dovrebbe essere alla base di ogni ordinamento giuridico. Essa suppone, infatti, una verità di carattere ontologico, (in forza di quanto è stato già evidenziato precedentemente, n.d.r.), a partire da solide conoscenze scientifiche, circa la continuità dello sviluppo dell’essere umano” (Congregazione per la Dottrina della Fede, Dignitas personae, n. 5).

Nella antropologia personalista, l’essere umano, in quanto persona, è un essere pluridimensionale che si distingue da qualsiasi altro essere animale. Riflettendo, anche a scuola, sulla distinzione tra “corpo” e “corporeità, ossia, tra corpo anatomico che “ho”, caratterizzato dalla “finitudine” e corpo che “sono” caratterizzato da “trascendenza”, ho potuto acquisire una maggiore consapevolezza sulla grandezza e bellezza dell’essere umano, il cui corpo non è “il contenitore di noi stessi”, bensì il nostro essere nel mondo. Il nostro corpo è il nostro esserci. La coscienza del mio corpo, quale dimensione di tutto il mio essere-per-con-gli altri è la mia corporeità. E la mia corporeità è un tutt’uno con il mio essere. Pertanto, il mio corpo non è meramente un “oggetto”. Io sono il mio corpo, ma non sono solo corpo. La mia vita fisica è un tutt’uno con la mia vita, con tutto il mio essere. Il corpo che sono ha una genesi. Il mio essere corporeo era già totipotente in sé (con tutte le potenzialità di sviluppo nel suo essere) in quel nuovo genoma, che non ha smesso di crescere nel grembo di una madre. Che non vuole smettere di crescere, amando la vita, dono inviolabile ed intangibile.

Pino Silvia IV E BS

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