Teatro e legalità: il Majorana incontra l’opera dei pupi antimafia
Secondo e coinvolgente appuntamento per le classi del Majorana con il progetto legalità: “Se si insegnasse la bellezza” al teatro Trifiletti!
Gli alunni accompagnati dai docenti hanno potuto assistere allo spettacolo dell’Opera dei pupi di Angelo Sicilia “Storia di Rosario Livatino. Un giudice perbene”, in cui attraverso i pupi antimafia è stata affrontata e proposta la difficile vita professionale del giudice, la sua profonda fede e la sua incorruttibilità.
Graditissimo ospite della manifestazione è stato don Giuseppe Livatino, cugino del giudice e postulatore della causa di beatificazione, il quale ha piacevolmente interloquito con la platea contribuendo a farci conoscere meglio sia la vicenda umana del giudice ucciso dalla “stidda” agrigentina nel 1990 a soli 38 anni, sia lo stato del processo di beatificazione, non sottraendosi, infine, ad alcune nostre domande.
Documentandoci sulla figura del giudice Rosario Angelo Livatino, abbiamo più volte ritrovato la seguente frase: “Quando moriremo, nessuno ci verrà a chiedere quanto siamo stati credenti, ma credibili”. Può aiutarci a comprendere meglio questa riflessione del giudice, che viene considerata anche il suo testamento spirituale?
Molto semplicemente, credenti possono esserlo tutti, anche i mafiosi si dicono credenti. Una cosa è essere credenti, una cosa è poi vivere i valori professati nella quotidianità. Rosario credeva fermamente in Dio. Questa fede l’ha manifestata quotidianamente dalle scelte più piccole, apparentemente insignificanti e banali, a quelle più importanti, come quella appunto di servire lo Stato nel servizio dell’amministrazione della giustizia, così come in tutte le altre cose. E’ molto importante questa frase, ci fa capire quanto lui sia stato in qualche modo legato allo svolgimento della sua professione, basandosi su quei valori cristiani. Questa è la cosa più importante, è un messaggio che potrebbe veramente dare un sostegno e un aiuto fortissimo oggi anche alle giovani generazioni. Sforzarsi di essere credibili, cioè di essere testimoni di valori che in qualche modo vengono incarnati nella quotidianità.
Rosario Livatino è stato definito da Papa San Giovanni Paolo II “martire della giustizia e indirettamente della fede”. E’ questo che ha portato la Chiesa ad avviare il processo canonico per dichiararlo santo?
Certamente una spinta è stata data dalla frase di San Giovanni Paolo II. Dico subito che lui non è un martire della fede, non è stato ucciso perchè cristiano in maniera diretta, è stato ucciso perché magistrato, ovviamente, ligio al proprio dovere, però il suo operato si è fondato sempre sui valori del Cristianesimo, quindi quello che ha animato la sua attività giudiziaria sono appunto i valori del vangelo. Ecco perchè questa vita vissuta, non tanto la fine o la morte cruenta, perchè questo può significare o non sigificare nulla, quanto piuttosto i circa 38 anni di vita che ha affrontato in maniera coerente con i principi del Vangelo: questa grande testimonianza che ha dato, ha spinto la chiesa nel 2011 ad aprire il processo diocesano di canonizzazione.
Abbiamo appreso che uno dei killer, Domenico Pace, ha scritto al Papa, all’Associazione Amici del giudice Rosario Livatino e a Lei, chiedendo perdono e definendosi, ai tempi del crudele assassinio, come un ragazzo vuoto, senza motivazioni, con pochi contatti umani e scarse possibilità di essere aiutato a crescere umanamente. Come può essere letta, interpretata questa richiesta di perdono secondo lei? Può essere accolta da voi familiari?
La richiesta di perdono è sempre accolta. Il problema è tutto quello che è successo anche dopo, perchè dopo la missiva la cognata dello stesso Pace ha scritto che il fatto non corrispondeva a verità , poichè non era possibile pentirsi per qualcosa che non era stato commesso; la cognata diceva addirittura che Pace non faceva parte del commando dei quattro killer della Stidda che hanno ucciso Rosario Angelo Livatino. E’ una vicenda un poco complessa, abbiamo preferito ovviamente non entrare nel merito per ovvie ragioni. La stessa famiglia si è dissociata dal killer e il killer non ha più preso parola, non sappiamo più nulla di quali siano le sue reali intenzioni; forse si pente veramente di quello che ha fatto oppure magari può essere stata una strategia finalizzata non so a che.
Ritiene che la filmografia dedicata al giudice Rosario Livatino ne rappresenti pienamente la sua figura? Mi riferisco in particolare al film “Il giudice ragazzino” ed al film-documentario “Luce verticale” del regista milazzese Salvatore Presti, assessore alla cultura del comune di Milazzo.
Il film “Il giudice ragazzino” è uscito nel 1994. Molti aspetti della vita di Rosario ovviamente li trasmette in qualche modo, molti altri aspetti sono stati fortemente falsati. Per esempio il suo rapporto con gli avvocati e il suo rapporto anche con la fidanzata. Li c’è stata una scelta, diciamo in maniera molto semplice, cinematografica, una scelta, come si dice in questi casi, di cassetta. Sono stati presentati anche dei falsi storici; per esempio l’assassinio del maresciallo Guazzelli che, secondo il regista, sarebbe avvenuto prima della morte di Livatino mentre, in realtà, il maresciallo Guazzelli fu ucciso due anni dopo dalla morte di Livatino, quindi il 4 aprile del 1992. Ci sono alcune cose che non vanno, non solo dal punto di vista storico ma quanto nella figura stessa di Rosario e del suo rapporto soprattutto con gli altri. Non esisteva il fatto che Rosario “maltrattava” gli avvocati. Tutti gli avvocati che sono stati sentiti e che hanno avuto a che fare con Rosario ne hanno parlato ampiamente come una persona molto disponibile e molto spesso stupiva anche gli avvocati difensori perchè chiedeva pene inferiori rispetto a quelle che avevano chiesto gli avvocati stessi. Immaginate un po’, c’è un’applicazione della legge che non è mera applicazione della legge ma è soprattutto il tentativo di dare alla legge stessa un’anima e soprattutto di infliggere una pena solo per la correzione del reo, non per la sua condanna e basta.
Può regalarci un suo ricordo personale del giudice?
Ricordi personali possono essere tanti. Noi eravamo parenti lontani ma ricordo che nel 1986, per esempio, lo invitai a partecipare ad un convegno sulla mafia. Si era appena aperto il maxiprocesso di Palermo e lui mi disse subito che il periodo non era dei più facili dal punto di vista lavorativo, quindi cercò di partecipare ma poi non potè e si scusò anche per questa assenza. Sono tanti gli episodi raccontati da quanti lo hanno conosciuto da vicino, parlano di una persona sempre umile e disponibile, una persona grandemente accogliente, soprattutto una persona che non amava parlare di sè. Questa è la cosa più grande, in una società come la nostra dove tanti cercano in qualche modo di salire su un palcoscenico e di farsi la fama. Parlare invece di Rosario è proprio l’opposto. Rosario non parla di sè, non ama far parlare di sè e lo ha conosciuto solo chi ha fatto uno sforzo in più per entrare dentro la sua personalità.
Carlotta Giovenco e Bilardo Melissa II C BS