venerdì, Novembre 22, 2024
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“L’ASPETTA IL MONDO NON SEMPRE ROSEO DELLA STORIA DELL’ARTE” Intervista Conversazione con Teresa Pugliatti

Teresa Pugliatti è una storica dell’arte nota in campo nazionale. Le ho chiesto un’intervista per il giornale on-line dell’ITT Majorana di Milazzo. Ha accettato immediatamente.

Messinese, già ordinario di Storia dell’Arte Moderna all’Università di Palermo, è autrice di moltissime pubblicazioni tra cui i basilari Pittura del Cinquecento in Sicilia (in due volumi, Occidentale e Orientale) e Pittura della tarda Maniera nella Sicilia occidentale.

Mi accoglie con la solita cortesia nel suo buon ritiro sulle colline di Panicastro di Patti (“in campagna”, come usa dire lei), dove si è trasferita ormai quasi stabilmente. Dal pianoro davanti casa, una sobria costruzione colonica in pietra, si vedono di solito le isole Eolie e il grande scoglio nel golfo ma oggi la pioggia ha battuto di continuo e le nuvole chiudono l’orizzonte. È già tardo pomeriggio; finalmente ha smesso di piovere, sul mare sta calando il buio. L’ingresso alla sala è diretto: tavolo e sedie sono di legno massiccio; alzando lo sguardo sorprende il vasto soppalco. S’intravedono d’infilata la solita quantità di libri e due pianoforti. Bei quadri molto colorati alle pareti, quasi tutti del ‘900. L’insieme è equilibrato, accogliente. Tante fotografie poggiate sui mobili, ma nessuna appesa. Un piccolo presepe rimanda alla festa imminente.

Accanto a lei, come sempre, c’è Luigi Ferlazzo Natoli, suo compagno di vita da molti anni. Già preside della Facoltà di Economia all’Università di Messina, con una notevole carriera da tributarista, è anche sopraffino intenditore e scrittore d’arte. Interverrà più volte nella conversazione, ora con sguardo protettivo nei confronti di Teresa, ora per precisare meglio certi dettagli.

Sono con me anche Christian e Doriana, i miei due figli. Per ragioni legate ai miei interessi di ricerca, ho sempre parlato loro di Teresa, ma in passato non era mai capitato che potessero conoscerla.

Venti dicembre duemilasedici: nell’occasione, finalmente ci riusciamo.

FG.Intanto grazie; sono contento che tu abbia accettato di conversare con me per il giornale della scuola. Ho pensato di riunire le domande in tre grandi argomenti, ma ovviamente rispondi pure in libertà.

TP. Va bene (sorride).

 

  1. UNA PARENTESI PRIVATA

 F.G. Porti un cognome importante. Tuo padre Salvatore, giurista di gran fama, musicologo, preside di Giurisprudenza a Messina a soli trentun anni e Rettore dell’Università dal 1957 al 1975, era una persona molto nota. Da giovane te ne rendevi conto? Questa cosa ti ha aiutato nella carriera o è stato un peso?

TP. La domanda ha bisogno di una risposta molto articolata. Io ero orgogliosissima di mio padre, però allo stesso tempo era terribile sostenere gli esami universitari e sentirsi dire dagli altri studenti: “Tu sei la figlia di Pugliatti, la figlia del Rettore”. Una volta mi chiamarono addirittura “la Rettora”. Quando finivo gli esami, mi chiedevo spesso se avessi preso trenta e lode perché figlia di Pugliatti; non mi sentivo mai giudicata nel voto per quanto potessi valere ma perché ero “la figlia di”. La cosa m’infastidiva molto e in questo senso mi è sicuramente pesato. Pensa che mia sorella Paola, più piccola di me, s’iscrisse a Catania per non sentirsi dire che era la figlia di Pugliatti, però anche lì tutti conoscevano mio padre, perciò lei spesso si negava. A Messina io non potevo proprio negare. Per la tesi di laurea … Ti sei laureata a Messina? … Sì; chiesi al mio maestro Alessandro Marabottini, toscano, di assegnarmi un pittore non siciliano. Mi diede una tesi su Filippo D’Angeli, detto il Napoletano, un paesaggista seicentesco che aveva lavorato fra Toscana, Lazio e Napoli. Da questa ricerca emerse pure un altro paesaggista, confuso a volte con il Napoletano, Agostino Tassi che operò, anche lui nel ‘600, a Roma e in Toscana. Alla laurea, dopo la fatidica frase “La aspetta il mondo non sempre roseo della Storia dell’Arte”, il professore mi propose di continuare a studiare Tassi e non D’Angeli. Durante le ricerche a Roma, una volta suonai alla porta di un palazzo. Al citofono dissi: “Senta, lei ha degli affreschi di Agostino Tassi; per favore, vorrei vederli”. Così, in modo molto diretto. “Scusi, ma lei chi è? Con chi parlo?” rispose il padrone di casa. “Vengo da Messina, sono la dottoressa Pugliatti”. E quello: “Come ha detto che si chiama? Pugliatti? Salga, salga”. Quel tipo, il padrone di casa, mi fece salire immediatamente perché mi chiamavo Pugliatti! Era un avvocato; aveva studiato sui libri di mio padre! … Incredibile! … Un’altra volta, tornavo in Italia da Bruxelles in treno; dovevo fermarmi a Torino. Arrivai nel cuore della notte con una valigia enorme. Erano gli anni del terrorismo rosso; Torino non era una città molto sicura. Usai le poche lire rimaste per pagare un taxi che mi portò in albergo; per il resto avevo solo soldi stranieri. All’epoca ovviamente era tutto diverso, perciò la mattina dopo andai alla prima banca e spiegai a un impiegato la mia necessità di cambiare i soldi esteri. Quando diedi le generalità, mi guardò: “Pugliatti? Ma lei è di Messina?”. Pensa! Questo impiegato, a Torino, mi disse: “Io mi sono laureato a Messina con suo padre” (ridiamo tutti). Mi fece delle grandi feste; cambiò subito tutto. Mi avrebbe dato persino più soldi, se avesse potuto. Perciò, vedi, anche in queste piccole cose capii quanto fosse importante essere figlia di mio padre … Ma tu avresti voluto essere come lui? Cos’era per te? Un modello o, prima di tutto, il tuo papà? … Un modello? Era una persona! Prima di tutto era il padre che adoravo e poi … No! Io ero, allo stesso tempo, diversa e molto simile a lui. Lo sai che tante persone che hanno letto i suoi libri dicono che scriviamo allo stesso modo? Né lui mi ha insegnato mai a scrivere; avevo già qualcosa dentro, evidentemente. Poi ci intendevamo, davvero, solo con lo sguardo. Io lo capivo. Non mi ha mai insegnato niente volutamente, ma ho imparato tanto da mio padre; in parte perché abbiamo una struttura mentale simile. Lo sentivo in tante cose. Il nostro rapporto perciò era questo; però soprattutto all’inizio, lavorando a Messina – ma ancora oggi, devo dire – mi dava fastidio essere intesa come figlia di Pugliatti. Non sono solo la figlia di Pugliatti; mi fa piacere esserlo però non voglio essere ricordata o agevolata per questo.

F.G. E invece della signora Costanza Scuderi, tua madre, che mi dici? Cosa hai preso da lei?

TP. Mia madre era una persona di grande volontà; ferrea direi. Questo sicuramente l’ho preso da lei. Non era proprio una madre tenera; credo che non mi abbia mai dato un bacio … Una donna di vecchissimo stampo! Nelle famiglie di una volta succedeva! … Sì, era molto severa, severissima! In verità, amava più mia sorella. La cosa strana, però, è che io non ho mai sofferto di gelosia, perché adoravo questa sorellina di quattro anni più piccola ed ero felicissima che le volessero bene in famiglia. In fondo, io sono stata sempre più autosufficiente … Magari perché eri più legata a tuo padre! … Sì, questo certamente; d’altra parte mia nonna e le mie zie mi davano grande affetto. Come prima nipote mi adoravano. Certo il modo di fare di mia madre avrebbe potuto creare un’enorme gelosia tra me e mia sorella. Per lei, tutto ciò che facevo, era imperfetto; mia sorella invece era la figlia perfetta. Comunque io mantenni sempre un forte senso di protezione verso Paola. Avevo un rapporto difficile con mia madre, però era una gran donna; la ricordo spesso e ne parlo sempre con Luigi. Gli racconto ancora tante cose. Sai, loro fecero grande amicizia, sebbene Luigi fosse il mio secondo uomo, essendomi separata in precedenza da mio marito. Pensa che loro discutevano anche di calcio e guardavano insieme le partite in televisione! (Luigi annuisce sorridendo).

F.G. Gli anni della Seconda Guerra Mondiale come li hai vissuti? Tu eri piccola! A me hanno raccontato tanto i miei genitori, ma un ragazzo di questi tempi, un nostro alunno per esempio, cosa ne può sapere?

T.P. Moltissimi anni dopo la Guerra, quando insegnavo a Palermo, stavo da sola, la sera mi misi a scrivere su quel periodo, del quale ricordavo tutto; ho raccontato tanti episodi. All’inizio, ai primi bombardamenti, stavamo a Messina. Quando suonava l’allarme di notte, ci svegliavano, ci tiravano fuori dal letto e ci infilavano delle vestagliette. Poi scendevamo al ricovero, che era comunque lo scantinato di casa (in via Sant’Agostino, dove i Pugliatti si erano spostati dalla casa meno sicura di Via 1° Settembre, ndr). Sentivamo le esplosioni; avevamo paura, però i bambini giocavano. Soprattutto mia sorella, che faceva le imitazioni dei personaggi; io invece ero impaurita. Ci furono anche delle cose impressionanti: una sera, nel ricovero, entrò urlando una signora. Aveva visto un massacro in piazza del Popolo! Era stravolta. Diceva: “Sono tutti morti; a Piazza del Popolo ci sono tanti morti, persone tagliate a pezzi dalle bombe”. Questo non l’ho dimenticato! A un certo punto, la situazione diventò sempre più grave; la città era troppo pericolosa ormai. Andammo perciò in campagna, a Castanea delle Furie, sui Colli. Da lì, dalla terrazza della casa che avevamo in affitto, si vedeva distintamente il fuoco su Messina, tanta luce e gli spari della batteria antiaerea. Sapevo che il mio carissimo zio Peppino stava alla batteria (Luigi: zio Peppino, tanto per chiarire, era il pittore Peppino Vanadia) e la cosa mi turbava parecchio. Nonostante ciò, quel periodo fu più sereno del precedente. A un certo punto, però, persino Castanea diventò pericolosa e allora i paesani costruirono delle capanne di frasche in una pineta fuori dall’abitato. Andammo a stare lì, in quella pineta; lo spostamento fu una cosa molto avventurosa per noi bambine. C’erano molti altri messinesi sfollati e avevamo anche dei cari amici, vicini di capanna … Sempre in una veste di gioco, quindi! … Sì, sì; questa cosa nella pineta fu divertente.

F.G. Parliamo di un argomento meno tragico. Casa tua era frequentata da persone di notevole spessore culturale; amici di tuo padre. Fammi qualche nome.

T.P. Sicuramente il primo cui penso è Giorgio La Pira (amico d’infanzia di Pugliatti; docente di Diritto Romano a Firenze; politico, membro della Costituente; poi, per dieci anni, indimenticato sindaco della città toscana; ricordato come persona di notevole spiritualità, con una causa di beatificazione in corso, ndr). Lui però frequentava poco nel senso che arrivava e ripartiva; veniva per una visitina a mio padre e a noi bambine e quando andava via, papà gli diceva spesso: “Giorgio dacci la tua benedizione”. Fra l’altro mio padre era agnostico, però La Pira aveva un tale carisma che persuadeva tutti della presenza della santità. Era davvero una gran persona. Poi rammento bene Glauco Natoli (critico letterario e poeta di Teramo, ndr), un francesista. Aveva gli occhi azzurri e parlava in modo molto calmo. Anche lui persona di grande spiritualità; affascinante nonostante gli evidenti difetti fisici che mi ricordavano Leopardi. Ancora, c’era Vann’Antò (pseudonimo di Giovanni Antonio di Giacomo, docente all’Università di Messina; uno dei più importanti poeti in lingua siciliana del Novecento, ndr) con cui sostenni il primo esame universitario … Che materia faceva? … (Luigi puntualizza: Storia delle Tradizioni Popolari). C’era un grande affetto tra lui e mio padre; io lo vedevo spesso in famiglia. L’esame con Vann’Antò fu incantevole, ma non perché fossi figlia di un suo amico; era proprio il suo modo: lo faceva con tutti. L’esame era una conversazione; studente e professore parlavano insieme. Lui proponeva una poesia e poi si discuteva. Faceva delle chiose. Diceva: “Vedi? Perché ha detto così? Che cosa significa questo? Cosa ti pare che significhi?”E invece, di Quasimodo che mi dici? Il legame con tuo padre è noto. Lo vedevi spesso? … (qui Teresa cambia registro, ndr). Beh, diciamo che Salvatore Quasimodo era meno simpatico! … Questo lo posso scrivere? (sorrido) … Ascolta! Mio padre scrisse un libro, “Parole per Quasimodo”, dove racconta tutto del loro rapporto; come e quando lo incoraggiò a scrivere; gli scritti che conservò a lungo per tirarli fuori in seguito; come lo convinse a pubblicarli (Quasimodo lavorava all’Ufficio Tecnico delle Ferrovie di Reggio Calabria prima di dedicarsi completamente alla poesia, ndr). Alla fine Quasimodo raggiunse il massimo della fama vincendo persino il premio Nobel per la letteratura (nel 1959, ndr) … E che successe? Non gli fu riconoscente? … I miei genitori videro le immagini della cerimonia di premiazione in televisione. A Quasimodo fu chiesto: “È mai stato incoraggiato da qualcuno? Com’è andato avanti nella scrittura?”. Lui rispose: “No, da nessuno; sono andato avanti da solo”. Mio padre era talmente grande sotto il profilo umano che mostrò di non sentire o di non raccogliere quelle parole. Mia madre invece era veramente … (qui Teresa si ferma). Mi disse: “Papà ha fatto finta di non sentire”. Lei, invece, non perdonava … Hai preso tante cose carine da tua madre, a quanto vedo! (rido). Dimmi almeno una cosa positiva su Quasimodo! … Leggeva le sue poesie in modo bellissimo, con voce pacata, facendo delle pause espressive quanto la sua parola. Si fermava al momento giusto e tutti attendevano. Era quasi un respiro che riprendeva alla parola successiva. Un modo speciale di leggere.

F.G. Perché hai scelto storia dell’arte? Com’è iniziato quest’amore?

T.P. Mi sono sempre interessata di arte, però la mia vera passione era la letteratura, solo che a Messina quando scelsi, non c’era nessun professore d’italiano che m’ispirasse; l’unico che mi sembrava interessante era Marabottini, di Storia dell’Arte, quindi ho preferito questa materia. All’inizio quasi controvoglia perché io avevo aspirazioni in letteratura … Addirittura? … Sì, poi lui studiava il ‘600 e non era il mio genere preferito. In seguito mi appassionai; mi sono interessata pure di questo periodo, di quel pittore, Tassi, di quel mondo. Mi ci sono calata dentro interamente e poi ho continuato. Infine dal ‘600 sono tornata indietro al ‘500 … E perché proprio la pittura? … La capivo meglio. Sono stata sempre più interessata alla pittura e la capivo … Quindi è una vera inclinazione la tua? … Sì; comunque con mio padre visitavamo pure mostre di arte contemporanea, perché lui era aggiornatissimo. Quando andavamo a delle mostre strane dove la gente intorno non capiva nulla, per lui ogni cosa era chiara. Ci ha avviato a capire tutte le possibili espressioni artistiche, però io ho scelto il professore, in mancanza di quello di letteratura … Perciò la mancanza di un professore di letteratura che ti soddisfacesse e la conoscenza con Marabottini ti hanno aperto la strada dell’arte! … Sì, ma diciamo che Marabottini non lo conoscevo da prima. Avevo sentito qualche sua lezione, come facevo anche con gli altri. A un certo punto, però, ho scelto storia dell’arte.

F.G. Perché sei andata a Palermo? Come mai non diventasti ordinario a Messina?

T.P. Perché a Messina non chiamarono la cattedra! Il mio caro preside di allora non volle (ride). Forse fu istigato da altri. È andata così! Io sono stata avversata per ragioni di gelosia da tutti i miei colleghi a Messina come a Palermo, pur avendo aiutato tante persone. Forse perché c’erano sempre molti studenti intorno a me; il mio istituto era pieno di ragazzi e ragazze e questa cosa dava fastidio a qualcuno. Una sera, una mia collega disse: “So che vai pure a cena a casa delle studentesse!” Ed io: “Sì, ho fatto amicizia con alcune di loro e quindi andiamo a cena insieme; che c’è di male?” All’epoca non entravo mai nelle beghe di gruppo con i colleghi; ero sempre per fatti miei, anche perché avevo tanto da lavorare. Lavoravo, lavoravo! Lo sai quanto? Per due anni fui impegnata contemporaneamente a Messina e Palermo; perciò di giorno insegnavo e di notte scrivevo libri; poi nei viaggi in treno tra le due città leggevo le tesi di laurea, gli articoli sulle riviste e le cose scritte dagli studenti. Non avevo proprio tempo per le beghe … Che corsi tenevi all’Università?Storia dell’Arte Moderna, ma a Messina prima c’erano Medievale e Moderna, poi il ministero la divise in tre branche e diventò Medievale, Moderna, Contemporanea. Finché ero associato, le facevo tutte. Quando vinsi il concorso per ordinario, feci Storia dell’Arte Moderna, alternandola ai corsi di arte siciliana del ‘500 e del ‘600 e a quelli di arte europea del primo Novecento. Infatti, ora sono finita al Simbolismo.

F.G. Il tuo primo libro fu, nel lontano 1978, “Agostino Tassi, tra conformismo e libertà”, dove ovviamente approfondisci l’episodio della presunta violenza sessuale su Artemisia Gentileschi, anche lei grande pittrice, ormai nota sui media, semplicemente, come Artemisia. Mi sono sempre chiesto: mentre studiavi l’artista, da donna e da ricercatrice te lo ponevi il problema che stavi parlando di un possibile stupratore? Anche se, in effetti, tu sostenesti che non ci fu stupro, ma un rapporto consenziente!

T.P. Ti racconto una cosa. Una volta incontrai in una biblioteca uno storico dell’arte belga, Didier Godard. Ognuno faceva le sue ricerche. Ci presentammo e mi chiese cosa stessi studiando. Risposi: “Sto scrivendo un libro su Agostino Tassi”. “Ah! Lo stupratore!”. “Un momento”, dissi io, “Non sono d’accordo; guardi che Artemisia era una donna molto leggera” In effetti, la storia è molto più complessa della semplificazione data dal tuo collega e non possiamo neanche riassumerla qua; perciò la mia domanda è precisa. Riuscisti comunque a distaccare il tuo impegno di ricercatrice dall’episodio specifico? … Si! Completamente … Cioè non t’influenzò nel giudizio critico? No! Per niente. Infatti, quel belga mi fece solo ridere. Tassi comunque era un pittore interessante, ma per lui non era più neanche un pittore. Lo identificava solo con l’episodio del presunto stupro … Allora bisogna avere un distacco emotivo quando si fa una ricerca? Oppure no? … Sì, ma a volte non l’ho avuto. Per esempio, nel mio ultimo libro sui Simbolisti mi sono fatta prendere molto dalla vita di Dante Gabriel Rossetti, il più conosciuto dei preraffaelliti; una vita piena di contraddizioni, strazi e umanità. La stessa cosa con Klimt, cui ho dedicato un finale descrivendolo nel suo essere uomo, oltre che artista. Klimt era davvero una persona di grande genio e allo stesso tempo di notevole modestia; generoso e di grande umanità. Faceva lavorare i giovani con sé senza mai fare il capo. Lavoravano insieme, alla pari; però non dimentichiamolo, era pure … “un gran fimminaru” (ridiamo tutti).

 

Il professor Ferlazzo, da fine intenditore d’arte, interviene in modo preciso su un tema a lui caro.

 

LFN. Io credo che la vera vocazione di Salvatore Pugliatti fosse la letteratura, che ritroviamo nei suoi scritti giuridici. Ugualmente in Teresa, perché, alla fine del discorso, letteratura e storia dell’arte in lei si legano. Dicono tutti che nei suoi scritti scientifici di storia dell’arte ci sia anche una sottostoria, cioè una specie di romanzo. Questo si vedeva già nel libro su Tassi (che poi diventò un altro volume in forma di diario: “Sulle tracce di Agostino Tassi, diario autentico di una ricerca”, ndr). Teresa non si è mai limitata al colpo d’occhio sui quadri. A lei interessava proprio l’umanità delle persone; artisti che magari lavoravano a stretto contatto tra loro, s’innamoravano della stessa ragazza, della moglie o della modella. I contrasti, secondo me fanno vedere l’artista nelle varie fasi della sua vita, che poi lo portano a dipingere in un modo oppure in un altro.

T.P. Questo si collega con il modo di gestire le mostre, che mi fa spesso a litigare con i curatori. Una mostra si deve ordinare prima di tutto in senso cronologico. Invece ormai è uso comune ordinarle per temi. L’artista è un essere vivente che attraversa momenti d’ispirazione e di caduta, periodi in cui risente di problemi, magari esterni e anche d’influenze; quindi la sua carriera artistica è legata alla sua vita e la sua opera può essere compresa meglio in rapporto ad essa. Allora si deve tenere sempre presente il momento nel quale eseguì un certo quadro o un altro. Io protesto sempre perché si fanno mostre talmente sballate che il pubblico non capisce più niente. Ho visto delle mostre in cui non si capiva neanche chi fosse il pittore. Una volta a Londra vidi un’esposizione su Turner (William Turner; grande pittore paesaggista inglese tra Settecento e Ottocento, ndr) dove misero prima i dipinti della maturità, quasi evanescenti, fatti di sola luce e colore, seguiti dai primissimi quadri, più realistici … Insomma, cominciarono dalla fine! … Sì. Infatti, le persone guardavano ed esclamavano: “Ohhh! Is the same artist?” Io rispondevo: “Yes, is the same!” E nel mio inglese molto elementare spiegavo che le opere in fondo alla mostra erano quelle che Turner aveva dipinto per prime … Bastava entrare dall’uscita! Si risolveva … Questo è niente. In Italia va ancora peggio, perché le mostre le fanno gli architetti. Scusi architetto, non parlavo di lei (ride) … Lo so, non ho ancora avuto la sfortuna di allestire una mostra (rido anch’io), anche se a un paio ho partecipato. Andiamo a mostre migliori; al nostro amato Antonello.

 

  1. ANTONELLO DA MESSINA

F.G. Raccontaci la storia della Crocifissione di Sibiu alla grande mostra di Messina del 1953!

T.P. Mentre si preparava la mostra, mi accostai ad Antonello sempre grazie a mio padre. Lui era un esegeta raffinatissimo e mi fece notare tutto sui suoi dipinti che, fra l’altro, prima di allora avevo visto solo sui libri. A un certo punto mi disse che forse la Crocifissione di Sibiu, una delle opere più attese (c’è rappresentato il porto di Messina, ndr), non ci sarebbe stata. “Non la mandano, non può arrivare”, disse sconsolato … Perché all’epoca c’era la cortina di ferro; il quadro si trova in Romania … Sì, era in Romania che stava sotto l’ombrello dei russi. Mio padre, come presidente del comitato esecutivo della mostra ne parlò con Renato Guttuso. Gli disse: “Noi abbiamo questo problema”. Guttuso in quel periodo andava e tornava dalla Russia con facilità; era di casa all’Est. Gli rispose: “Stai tranquillo, vediamo cosa posso fare”. A un certo punto, una mattina – io non c’ero – mentre gli operai montavano la mostra al Palazzo Comunale, arrivò un signore con una valigetta, piccola, proprio di quelle diplomatiche. Veniva dalla Russia. Aprì la valigetta e dentro c’era il quadro. Lo sai, è piccolissimo. Si racconta che alcuni piansero dalla commozione, vedendolo. Sembrava impossibile averlo e invece arrivò proprio ad personam, a mio padre. Io lo vidi dopo; ero davvero giovane, allora; avevo solo diciannove anni. Non c’era mai stata nel mondo una mostra così grande su Antonello, prima del 1953. Fu un avvenimento culturale d’importanza assoluta per l’Italia e per Messina.

F.G. Che pittore è Antonello? Lo metteresti fra i grandi o i grandissimi? Almeno della sua epoca?

T.P. Sì, sì! Fra i grandissimi; certamente. Io lo sento più dei fiamminghi, perché se loro in certe cose sono più precisi, calligrafici, lui invece è più umano. È quello che ho scritto in “Rigore ed Emozione”. Antonello è sempre rigoroso sotto il profilo della geometria. Tu che hai studiato l’Annunciazione lo sai bene. Antonello ha anche un grande rigore scientifico nella descrizione dei particolari, però i suoi dipinti comunicano soprattutto emozione. Un’Annunciazione dei fiamminghi, per esempio, è sempre più fredda. Addirittura Michelangelo, che era una persona di grande sensibilità, diceva che la pittura fiamminga poteva piacere solo alle donne e ai bambini. Non li disprezzava, però, in effetti, non li stimava; anche se questi pittori piacciono sempre, pure a chi non capisce nulla di pittura, perché hanno molta precisione nel disegno! In Antonello, invece, c’è sempre quel di più rispetto ai fiamminghi: l’emozione. I suoi ritratti, per esempio, sono proprio delle persone vere, vive; sono personaggi dei quali, nel volto, si legge la vita, l’attività; ciò che facevano, che pensavano. Infatti, mi sono arrabbiata moltissimo quando uscì il romanzo di Consolo che parlava di marinai … Ovviamente ti riferisci al libro di Vincenzo Consolo: “Il sorriso dell’ignoto marinaio” … Antonello era pittore di personaggi importanti, quando mai ha dipinto un marinaio? Era abituato a dipingere su commissione di persone che lo pagavano bene … In “Antonello e la sua città”, un libro sempre citato da tutti gli storici dell’arte, Salvatore Tramontana, sul fatto che fosse pagato bene, ha scritto il contrario. Ci restituisce una visione opposta … Ma forse da ragazzo, da giovane! Tramontana dice che era pagato poco, come succede a tutti i pittori quando non sono famosi, ma comunque era sempre pagato, cioè voglio dire non lavorava raffigurando temi realistici per suo diletto ma lavorava su ordinazione … A me non piace molto quel libro, tu lo sai … No, infatti … Anche se è molto citato, ne esistono di migliori … Ci sono delle cose che … va bene, poveretto, è morto da poco; però non era esattamente materia sua questa, sai. Non era argomento suo; però è vero, è molto citato … A me lascia perplesso proprio il metodo d’indagine, ma non sono un accademico, la mia opinione è relativa … All’epoca gli chiesero di scrivere, quando ci fu la seconda mostra a Messina su Antonello, quella del 1981 … La vidi anch’io; ero un ragazzo … Quel catalogo dell’ottantuno non è male, sai; è il primo catalogo davvero scientifico su Antonello; c’è anche il saggio di Marabottini che è importante … Marabottini mi piace; scrive su Antonello in maniera lineare e coerente … Ma non solo su Antonello; lui era un genio sconosciuto di una modestia assoluta; non si faceva mai vedere né sentire. Era anche molto timido e un poco pavido, devo dire. Una volta che Calvesi (storico dell’arte, saggista, professore universitario, ndr) lo attaccò su un giornale, gli dissi: “Scrivigli quattro insulti; come si permette questo qua!!” Ma lui non scrisse niente, non rispose alla polemica. Era fatto così.

F.G. Una tua definizione sulle Crocifissioni di Antonello la trovo fondamentale. Parli di “senso del silenzio”.

T.P. Guardando quei quadri, le tre Crocifissioni, io lo sento quel silenzio. Sai da cosa è dato, soprattutto? Da questa folla che va via, piano; che vedi già in lontananza. La cerimonia, chiamiamola così, di morte, è finita; la folla che assisteva è andata via; è finito tutto; è calato il silenzio. È una notazione di grande genialità. Il tutto agevolato dall’atmosfera serena del cielo; è un contrasto in un certo senso. Molto spesso nella pittura c’è questo contrasto tra la scena tragica e il cielo sereno. In queste crocifissioni, però, non è più contrasto; è il cielo sereno che accompagna il silenzio, cioè la fine della tortura. Cristo è morto, ormai; non soffre più.

F.G. Torniamo alla polemica, in cui tu sei maestra (rido). Secondo te, Messina ultimamente ha fatto poco, abbastanza o il giusto per valorizzare Antonello? Oppure non ha fatto proprio niente?

T.P. Ha fatto soprattutto cose sbagliate (rido di nuovo). Alcuni non sanno neanche chi è Antonello. Ho visto cose bruttissime in giro, purtroppo molto incoraggiate, sostenute. Una volta un politico, un assessore, volle vedermi. Mi disse: “Mi fa molto piacere conoscerla perché mi hanno segnalato il suo nome, mi hanno detto che lei è molto brava; è incredibile che tanta gente parli bene di lei”. Risposi: “Meno male; mi sono acquistata la fiducia di qualcuno! Ormai non vivo più a Messina, perciò mi sorprende pure”. Poi, ovviamente non fui convocata né mai interpellata quando affidarono l’incarico di organizzare una notte della cultura sul pittore a un’associazione autodefinitasi “Antonello da Messina”. Questi hanno fatto delle manifestazioni disastrose; non conoscono Antonello, eppure continuano a crescere nell’opinione pubblica. Ogni tanto mi arrabbio; vedo tanti personaggi che s’improvvisano esperti e allora strappo il giornale; Luigi mi dice sempre di non arrabbiarmi (Luigi annuisce) perché alla mia età mi fa solo male. Va bene, lasciamo stare … Certo, come vuoi. Ovviamente prendo atto delle tue riserve. Lo sai, per molto tempo ho vissuto fuori città e non ho idea di come siano state gestite certe manifestazioni.

F.G. Invece, prendo spunto da questa tua arrabbiatura per un altro tema. Un tempo dicesti una frase che mi è servita molto, un insegnamento basilare: “Su quello che studi, scrivi sempre la tua opinione!”

T.P. Sì, sì; sempre dico io; le proprie opinioni comunque. Anche perché ho costatato che chi ha ripetuto le cose dette da altri, spesso crea una serie di errori che si prolungano poi nel tempo, che si rimandano ad altri ancora … È la storia dell’Annunciazione di Antonello! … Esatto; anche tu hai fatto questa esperienza; se uno ripete solo quello che è stato detto da altri, può ampliare gli errori all’infinito; allora è sempre meglio vedere le cose con la propria testa. Poi se uno è d’accordo, darà ragione; altrimenti, se dovrà dare torto, lo farà … Sempre? Senza preclusioni? … Certo, assolutamente! Qui Interviene Luigi: “Non avete parlato del quadro fasullo di Antonello acquistato dal Museo di Messina!” … Ah sì; il quadretto … Bè, Teresa ha affermato pubblicamente e poi scritto su “Rigore ed Emozione”, quale sia la sua posizione a riguardo: molto scomoda, ma coraggiosa … Lo sai che qualcuno, in privato, mi ha dato ragione e non ha avuto il coraggio di dirlo? Mi son tirata addosso molti nemici per aver detto sempre quello che pensavo; non solo in questo caso … In effetti, hai lasciato aperta l’attribuzione. Non mi permetto un’opinione personale, non essendo uno storico dell’arte; ti riconosco, tuttavia, tanto coraggio nell’andare controcorrente.

 

3 – CHI INSEGNA E CHI IMPARA

F.G. Siamo all’ultimo tema. Una domanda adatta agli insegnanti e agli allievi; a scelta. Le cose s’insegnano espressamente o si dovrebbero soltanto porgere? Prima, in effetti, parlavi di tuo padre che non ti ha mai insegnato volutamente qualcosa.

T.P. Sì, però una cosa è l’ambito familiare, altro è quando si ha la funzione d’insegnare per mestiere. Certo, un insegnante deve anche saper porgere. Innanzitutto in una classe non c’è solo una persona, ma tanti allievi; c’è chi capisce le cose in un modo, chi in un altro; ci sono teste diverse, quindi si deve cercare di porgere le cose in modo chiaro, così che tutti possano raccogliere … Quindi il tutti deve essere comunque l’obiettivo, non solo chi riesce ad apprendere meglio? … Sì, tutti hanno diritto di imparare andando scuola e il docente ha il dovere di far capire sempre quel che dice e, soprattutto, di non annoiare … Anche dando qualcosa in meno per fare arrivare l’informazione a tutti? Oppure deve dare comunque di più? … Deve dare sempre molto. La cosa più difficile è dare un insegnamento di buon livello, scendendo però alla capacità di comprensione degli altri; cioè facendosi capire mantenendo il livello alto; questo è il problema … È qui il nodo, alla fine? … A me hanno detto che ci riuscivo: “Professoressa, lei ci fa capire tutto ma non parla in maniera elementare”. Facevo un discorso mentale di un certo livello però con chiarezza. Come mai tu annuisci? (rivolgendosi a mia figlia) E lei: “La penso anch’io così; l’interesse per la materia è dovuto anche all’insegnante”. Sì però ci sono materie che non fanno proprio parte di noi. Io, per esempio, non ho un buon rapporto con i numeri. Anzi a volerla dire tutta, in lingua siciliana che rende meglio: io sono sempre stata “bestia” in matematica (ridiamo tutti), ma in una maniera pazzesca. Tutti i professori di matematica mi avrebbero bocciato. Mi soccorreva la segretaria della scuola, amica di mia nonna, e i presidi di lettere che dicevano: “Questa è bravissima in italiano, non la possiamo bocciare!”. E quelli di matematica ribattevano: “Ma non capisce niente” (continuiamo a ridere). No, perché io andavo alla cattedra e vedevo solo segni strani; non parlavo, scena muta. Era anche un fatto psicologico, secondo me. M’impressionavo; quella materia la sentivo estranea, non era cosa mia. Tornando al ruolo dell’insegnante e all’affermazione di tua figlia, ti dirò che il mio professore di greco al liceo non mi ha mai fatto capire nulla, perché questo tizio recitava in greco ma non ci spiegava davvero il valore di quelle parole. Certo insegnare greco è difficile, più di altre materie, in fondo. Più di storia dell’arte, forse. Chi lo sa! … Vediamo se ho capito: l’insegnante deve sempre dare il massimo e farsi comprendere da tutti, ma senza usare un linguaggio elementare, giusto? E soprattutto, non deve annoiare. Che vuoi che sia? È solo difficilissimo! … Sì, però è così. Io mi sono annoiata assai nella mia vita, veramente; non solo con i miei professori ma anche sentendo alcune lezioni di grandi personaggi tipo (omissis) a Roma, che era un ottimo storico dell’arte, ma di una noia mortale. Guarda, c’era veramente da dormire e da ronfare perché parlava con voce monotona, una cosa dietro l’altra; parlava con se stesso. Questo è il fatto, molti parlano con se stessi. Poi c’era (omissis) a Firenze che cercava di farsi capire, però parlava sempre affannosamente, anche lei una cosa dietro l’altra. Tu seguivi questo suo affanno con angoscia. Io andai a trovarla una volta e sentii una sua lezione. A un certo punto gli studenti se ne andarono; quasi si svuotò l’aula, veramente. Lei si giustificava. Diceva: “Forse dovevano partire”. Ci rimasi male; aveva una grande fama … Ma un insegnante può imparare dagli allievi? Un insegnante? Sì, sì; certo, come no! … Come? Che cosa potrebbe imparare? … Mah! Gli allievi spesso ti presentano delle osservazioni; ti fanno riflettere su cose che ancora non hai detto! A me è capitato parecchie volte, come no! Domande che vogliono una chiarificazione su un certo punto che magari non pensavi di chiarire. Questo è importante! Bisogna accoglierle queste cose; è sempre successo.

F.G. Prima hai parlato di Marabottini come tuo Maestro. C’è stato qualcun altro?

T.P. No! Niente, niente; solo lui e ovviamente mio padre; basta. Sai, neanche Marabottini era il tipo che insegnava espressamente le cose; io vedevo solo come lui leggeva i quadri. Una volta m’insegnò una cosa, semplicemente con un gesto. Studiavo dei paesaggi del ‘600 e gli chiesi come si facesse a distinguerli da quelli dell’Ottocento. Lui, allora, col dito segnò il cielo e mi disse: “Guarda il cielo di questo quadro e il cielo di quest’altro”. Voleva intendere che nel primo, il cielo era particolarmente intenso, nell’altro molto limpido. Lui, con un solo movimento del dito mi fece capire tutto … Solo un gesto, quindi … Sì, ma non mi ha mai insegnato volutamente le cose; io lo osservavo soltanto. Certo però che insegnava; eccome! Insegnava senza avere l’aria di farlo. Parlava, ma perché sapeva; sicuramente meglio di quel mio professore di greco al liceo. Tante cose Marabottini le insegnava senza che ce ne accorgessimo. Aveva un linguaggio veramente perfetto, pulito e descrittivo. Parlava benissimo … Ma allora chi è un cattivo maestro? … Bè, uno che non sa insegnare! (sorride) … Solo quello? … Chi non sa capire la psicologia dei giovani; anche questo è importante. Saper capire che grado di attenzione c’è mentre fai lezione. È importante; si sente. Se sono distratti, se parlano, se buttano cose in aria … Certo, però l’università è ben diversa dalla scuola; O no? … Non lo so; no, no, è lo stesso. Lo senti se sono attenti; lo vedi … Come quelli che scappavano di soppiatto … Certo! Li vedi che se ne stanno andando, li senti mentre parlottano tra loro. Anche quelli dell’università chiacchierano.

F.G. Molti storici dell’arte da un po’ di tempo a questa parte si vedono dappertutto, anche in televisione!

T.P. Sì, sì … Vittorio Sgarbi fa anche il politico … Sgarbi, però è intelligente, intelligentissimo, preparatissimo e un poco spettacolare; se lo senti parlare … Sì, l’ho sentito … Lui è davvero intelligente … Vero, la storia dell’arte la racconta bene … È così. Anzi, ti dirò, da quando si è liberato da Berlusconi è intelligente persino quando parla di politica … Io vedo anche Daverio, Flavio Caroli, Bonito Oliva, sono sempre in tv … Uhm, superficiali! … Superficiali? … Sì, sì, superficiali! No, Bonito Oliva è settoriale, perché lui ha lanciato la trans-avanguardia e segue quella. Non è uno storico dell’arte in senso ampio, è più un critico. L’ho conosciuto a Roma; un’amica libraia ci presentò. Gli disse: “Sai la Pugliatti ha scritto un libro su Daniele da Volterra”. E lui: “Ahhh, il Braghettone!”. Perché Daniele da Volterra era soprannominato così … Perché aveva aggiunto le braghe ai nudi di Michelangelo, alla Cappella Sistina … Sì, però di Daniele da Volterra seppe dirmi solo questo. Che storico dell’arte è? … Certo, anche tu ci metti del tuo! Come argomento dei tuoi libri, hai scelto dei bei pittori: lo stupratore e il braghettone. Che cosa pensavi ti dicessero? (ridiamo). Comunque a parte questo, è una cosa positiva o negativa andare in tv? Per l’arte, intendo … Con Sgarbi ci siamo incontrati una volta a Capo d’Orlando – ma ci conosciamo da diverso tempo – a una serata organizzata per l’uscita di un suo libro. Mi disse: “Vieni, ti presento all’organizzatore”. M’introdusse così: “La Pugliatti è una persona importante; non la conoscete perché non va mai in televisione”. E ha ragione; la televisione fa tanto; crea personaggi, ma anche illusioni. Ti racconto questa: noi avevamo un amico, uno storico, Paolo Alatri che insegnava a Messina. Tantissimi anni fa fu invitato a una dei primi talk show di Maurizio Costanzo, Bontà Loro. Qualche giorno dopo lo portammo al ristorante “al Padrino”. È conosciuto … Sì, è molto noto a Messina … Gli abbiamo fatto uno scherzetto! Sono andata avanti e ho detto al proprietario: “Siamo con una persona che è stata in televisione, uno storico importante; gli faccia festa. Si chiama professor Alatri”. Il Padrino, che faceva spettacolo pure nelle giornate normali, non si fece pregare. Entriamo e comincia a dire: “Professor Alatri, che piacere!! Che piacere; che onore; che onore averla qua!”. Ingenuamente lui ci cascò e disse: “Vedete che cosa fa la televisione?” Persino il Padrino lo conosceva! Non ti dico quanto abbiamo riso. Comunque, alla fine è vero; quando vai in televisione, è tutto diverso. Avrei venduto certamente più libri.

F.G. Torniamo seri! Che cos’è un metodo di studio? Un metodo di ricerca?

T.P. Un metodo di ricerca? Questa domanda me l’ha fatta una ragazza alla quale assegnai una tesi una volta. Mi disse: “Professoressa come devo farla questa ricerca?”. Le risposi: “È una domanda difficilissima, perché non le posso dare delle norme. Lei deve condurre una specie d’indagine poliziesca”Questa definizione è interessante! … Sì, le spiegai: “Deve capire che cosa dire di un pittore, della persona di cui scrive; dove trovare le informazioni”. E conclusi: “Lei a un certo punto ci arriverà da sola”. Io ci sono arrivata sempre da sola, nessuno mi ha dato un metodo. … È qualcosa che s’impara? … Sì; certo che s’impara; a indagare ci porta la curiosità. Tu per esempio, con Antonello, come hai fatto? Per andare avanti hai letto tutto quanto c’era da leggere. Te l’ha detto qualcuno cosa dovevi fare? Non credo! … In effetti, è andata proprio così … Quindi s’impara da sé perché è un’esigenza e la ricerca diventa proprio un’indagine poliziesca; fatta sui libri e sui documenti anziché sulle testimonianze … A proposito di ricerche, tu sei un po’ contraria alla Rete … Sì, perché certe volte si trovano informazioni che davvero non esistono. No, aspetta; ci sono cose molte utili in Rete, certi dati precisi come i titoli dei libri di un autore, ma i concetti, le idee, lì c’è parecchio pasticcio. Si deve andare cauti, insomma. Mi raccontava il mio editore palermitano, che è un tipo basso e grassetto, … Sì, lo vidi un giorno a casa tua … Ecco; lui mi disse che su internet c’era uno che lo descriveva come una persona alta e snella! Mi diceva, “Pensa chi sono io su internet!”. Puntualizza Luigi Ferlazzo: tante volte ciò che trovi in Rete è solo informazione; altra cosa è la cultura; leggendo alcune tesi dei miei corsi anch’io mi rendevo conto di avere a che fare spesso con una serie d’informazioni messe insieme e bastaSu quest’argomento sono d’accordo con voi, sulla necessità di distinguere dentro la Rete. Invece della tecnologia applicata all’arte che mi dici? Tanto per fare un solo esempio, ormai l’analisi diagnostica sui quadri è diventata basilare. Il vecchio “fiuto” sull’opera che fine ha fatto? … Penso che ci vogliano tutte e due le cose … Non sono due mondi diversi? … No, no; ci vuole collaborazione. I due mondi si devono assolutamente completare.

 F.G. Che cos’è l’indignazione per te?

T.P. (ride) L’indignazione? Credo di avere già dato un buon esempio in questa conversazione. Interviene Luigi Ferlazzo, che ha evidentemente un’esperienza quotidiana sull’argomento. “Basta aprire un giornale; ci si può indignare già alle otto del mattino, quando leggi dell’ignoranza gabellata per cultura in quelli che ormai sono diventati tutti degli eventi; piace molto ai politici questa definizione”. … Su quest’argomento non la finiremmo mai di parlare; dimmi infine di un rimpianto. Cosa non hai fatto che ti sarebbe piaciuto realizzare? … Suonare il pianoforte! … Quello in fondo alla stanza? … No, quello non funziona. Io ho studiato pianoforte da ragazza; la mia maestra diceva che ero portatissima, degna figlia di Pugliatti. Lui era anche un musicologo. Sarebbe stato contento, ma non l’ho potuto accontentare perché finì tutto alla licenza liceale. Avrei dovuto studiare di più; come potevo fare? Non avevo il tempo. Allora ho smesso e non ho più ripreso o meglio ho ricominciato molto dopo, quando finii di scrivere un libro, quello sulla Tarda Maniera Hai sempre scritto tantissimo, pure ora; il tuo penultimo volume è di circa 400 pagine, l’ultimo addirittura di 770! Come fai? Il prossimo a quanto arriverà? … No, basta! … Ti sei fermata? … Sì, perché voglio leggere anche le cose degli altri; m’interessa la letteratura per esempio. Qui l’intervento del buon Luigi è lapidario: “Vorrei che si fermasse perché quando comincia a scrivere, non la finisce più e poi sta male”. Teresa ribatte prontamente: “Sto male quando smetto, non mentre scrivo”.

 

Il siparietto tra i due, continua ancora per un po’. Alla fine, il professor Ferlazzo Natoli, con antico spirito goliardico, si auto elegge rompiscatole ufficiale della situazione. Quando tutto rientra, chiedo a Teresa di rispondere a una domanda che voleva farle mia figlia.

 D.Y. “Sapevo che questo incontro sarebbe stato molto importante per me. Ho temporeggiato perché avevo in mente un milione di domande, sulla sua passione per l’arte o sui suoi artisti preferiti; però, essendo una ragazza in procinto di scegliere chi voglio essere in futuro, ho pensato a qualcosa di più personale. Perciò le chiedo se è sempre stata decisa, forte e caparbia nella sua strada o se, a volte, ha pensato di desistere.”

T.P. Mai pensato di desistere, mai! Ho sempre continuato con caparbietà, altrimenti mi sarei fermata subito. La pubblicazione del mio primo libro è stata una fatica tale! Ho dovuto metterci dei soldi io, altri mia madre. Mio padre era già morto quindi, pur volendo, non ebbi neanche il suo appoggio. Eppure ho continuato per la mia strada. Un percorso sempre più difficile, perché il nuovo libro che scrivevo era sempre più grosso del precedente e più difficile da pubblicare. Nella carriera universitaria, nonostante i libri scritti e i molti titoli, fui bocciata a due concorsi per professore ordinario. La prima volta non m’interessai neanche del risultato – me lo riferirono altri – ma la seconda volta pensai di aver subito una vera e propria ingiustizia. In certi casi si va avanti e basta; perché uno vuole andare avanti, affrontando tutte le fatiche. Soltanto al terzo tentativo riuscii a diventare ordinario, ma a Palermo. Ne abbiamo parlato. La caparbietà ci vuole sempre in tutto. Anche ora, per esempio; a ottantadue anni ho scritto un libro sul Simbolismo, difficile da pubblicare e ovviamente da vendere. Tutti si rifiutavano, tranne Alessandro Mancuso, un giovane editore messinese che ha avuto tanto coraggio. Ci tiene; l’ha presa con entusiasmo. Insomma, da quando ho fatto la scelta di Storia dell’Arte ascoltando Marabottini, quella è stata la mia strada e non potevo più cambiare, anzi non volevo proprio. Volevo continuare e l’ho fatto, nonostante tutte le difficoltà.

 

Con quest’ultima domanda, vista pure l’ora di cena, si chiude la conversazione.

Ringrazio Teresa per l’opportunità che mi ha dato e Luigi Ferlazzo Natoli per la puntualità delle precisazioni. Anche i ragazzi sono soddisfatti. Ci proponiamo di risentirci, magari per riprendere Antonello, insieme.

Uscendo, l’aria fredda della collina, carica di umidità, m’investe alle spalle. Getto uno sguardo a immaginare le isole Eolie perdute nell’oscurità e ci salutiamo, convinti di aver chiuso il cerchio dei pensieri.

Invece non è così. Due giorni dopo, Teresa mi chiama: vorrebbe sentire mia figlia per dirle a voce altre cose su quell’ultima domanda. Le mando il numero di telefono. Questa, in sintesi, la sua precisazione:

T.P. “Non ho mai abbandonato la mia strada nonostante altre due possibilità lavorative che mi si presentarono nel tempo: sarei potuta entrare alla Biblioteca Universitaria e persino mio padre, all’epoca, mi aveva consigliato di accettare. Una seconda occasione fu alla Soprintendenza. Mi avrebbero assunto subito, ma non era il lavoro della mia vita. A me piaceva insegnare. Volevo dirti questo: devi fare quello che ti piace. Io ho insegnato con piacere, perché lo facevo volentieri”.

F.G. Grazie ancora Teresa

UNA NOTA PERSONALE

Vidi per la prima volta Teresa Pugliatti nel 1988, nell’aula consiliare del Palazzo Provinciale, a uno di quei convegni paludati anni ’80, dove i politici portavano abiti in tessuto rasato luccicante e gli ingegneri, per non smentirsi, vestivano comunemente da ingegneri: pantaloni con pinces e piega stirata, maglia con zip al collo, marrone o al massimo verde, sempre più larga del dovuto. Glisso, per carità di patria, sugli architetti presenti, affettatissimi, e ovviamente su me stesso, ancora (ahimè!) studente universitario.

Si parlava del terremoto di Messina del 1908, ricorreva l’ottantesimo, e tutti erano molto impegnati a dire quelle stesse cose inutili che avrebbero ripetuto in seguito per il centenario e riproponibili, volendo, anche adesso. Il vero terremoto fu invece lei, Teresa. In  mezzo a tante voci conformiste, tuonò da far piovere. Con la sua vivacità polemica e le parole pesanti come frustate, disse come sempre ciò che doveva.

Chiesi in giro chi fosse; guardai la scaletta degli interventi. Lessi: Teresa Pugliatti. Ascoltai i commenti dei vicini. Qualcuno, con quell’accento marcatamente siculo che ricordava la scena del pranzo tra mafiosi nel film “Il giorno della civetta”, disse: “Ah, la Pugliatti jè!”. Qualcun altro, in modo ancora più accentuato e con lo sguardo che parlava più delle parole, aggiunse: “A figghia i Pugliatti!” … con puntini di sospensione. Ero l’ultimo arrivato; ascoltai con la faccia dell’ultimo arrivato. Conoscevo di fama quel cognome, ma niente più.

Non ricordo le parole esatte che Teresa disse nell’occasione. Anche perché, dopo pochi minuti, non riuscii più a seguirle, impegnato com’ero a studiare il suo tono di voce, a osservare la sua postura agitata e a decifrare l’abbigliamento di quella che era, in ogni caso, un’affascinante signora allora poco più che cinquantenne. In seguito non ebbi occasione di ascoltare alcun altro suo intervento pubblico. Mi sarei interessato stabilmente di storia dell’arte e di Antonello da Messina in particolare, solo dalla fine del 2004. Ovviamente, però, sentii spesso parlare di lei nel tempo e lessi qua e là alcuni suoi saggi e articoli.

Conobbi personalmente Teresa solo vent’anni dopo quell’unico precedente. Fu lei a mandarmi una mail (trovò l’indirizzo non so dove) a gennaio del 2008. Mi chiedeva un incontro perché, dovendo scrivere un libro su Antonello, aveva necessità di approfondire di prima mano le novità che, insieme al mio caro amico Franco Sondrio, avevamo rilevato sull’Annunciazione di Palazzolo, sfortunatissima e sottovalutata opera del pittore messinese. Credo di aver pensato, in quel momento, che il mondo fosse andato proprio a scatafascio. Come? Proprio lei, Maestra d’intere generazioni di storici dell’arte, chiedeva lumi a noi su quel quadro? Boh!

Mi ricredetti all’incontro, pochi minuti dopo i saluti. Ovviamente, c’era anche Franco. Ci spiegò che i temi della rappresentazione e del disegno su cui, in effetti, era basato quello studio, non potevano essere di sua competenza e quindi prima di parlarne nel libro, li doveva imparare. La conversazione durò un paio d’ore e si aprì un mondo: capii che il vero Maestro è chi sa ascoltare gli altri, andando oltre i propri risultati. Quel giorno Teresa ci diede la sua prima lezione di metodo. Quando volle che leggessimo e controllassimo la bozza del passaggio da lei scritto sull’Annunciazione, ci diede la seconda. La terza fu quando ci chiese un parere spassionato sull’intero volume. Era proprio il mondo capovolto.

FRANCESCO GALLETTA

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