Cina: giustiziato l’uomo che aveva ucciso per amore
Jia Jinglong era un contadino della provincia di Hebei, a nord della Cina, condannato a morte per aver ucciso il suo capo villaggio. L’omicidio è stato compiuto dal ragazzo per vendetta: nel 2015 la casa dove Jia avrebbe presto abitato con la futura moglie, era stata distrutta per ordine del capo del suo villaggio, il quale voleva appropriarsi di quel terreno e costruirci un appartamento.
La famiglia del trentenne si era piegata a tale imposizione, ma Jia no. Ad aggiungere dolore e disperazione nella vita di Jia, la sua ragazza aveva preso la decisione di chiudere la loro relazione dopo aver perso la casa; nel frattempo Jia è stato anche licenziato: ormai era infelice e folle. La colpa di tutto, per lui, era il capo villaggio che gli aveva portato via la casa e distrutto la vita.
Così, con una raffica di colpi di una sparachiodi, l’ha ucciso. A febbraio 2015 ha confessato il suo reato, ma nonostante questo è divenuto il simbolo di tutte le “vittime burocratiche” cinesi ed è stato ampiamente sostenuto, soprattutto dai social media, come una vittima che ha ucciso per amore.
Gli avvocati di Jia hanno contestato più volte la responsabilità del ragazzo sull’omicidio, mostrandolo anzi come vittima dei soprusi e delle minacce che gli erano state rivolte proprio dal capo villaggio 55enne, alle quali Jia non si era piegato.
Ma qualunque speranza è stata vana, ecco le poche righe dedicate all’esecuzione: “La corte d’Appello di Shijazhuang ha eseguito la pena di morte per l’omicida Jia Jinglong. Prima dell’esecuzione, la Corte gli ha permesso di incontrarsi con i suoi famigliari, secondo quanto previsto della legge”.
Purtroppo la realtà della “zona delle campagne” in Cina, la parte che non conosciamo e che non ci è dato conoscere, è molto arretrata: comandano i ricchi, tutti gli altri sono “inferiori” e per questo devono obbedire.
Ciò che più aggrava la situazione è che la pena di morte in Cina non fa notizia: viene custodita come un segreto di stato, non si conosce davvero il numero reale dei morti. Di solito si conclude tutto con un colpo di pistola dietro la nuca o con un’iniezione letale, a spesa delle famiglie.
La città di Pechino, secondo i dati forniti dall’Amnesty International, ha condannato a morte, solo nel 2013, più persone che in tutti gli altri paesi del mondo, arrivando a 2400 vittime note.
Quello della pena di morte è uno degli argomenti che fa più discutere la società mondiale, da molti è ritenuto un atto di barbarie, per altri invece è, in alcuni casi, una giusta pena .
Sempre secondo l’Amnesty International, nel 2015 c’è stato un aumento delle esecuzioni in Iran, Pakistan e Arabia Saudita, ma al primo posto resta indiscutibilmente la Cina. In totale, nel 2015 sono state uccise più persone dell’ultimo quarto di secolo.
Salil Shetty, segretario generale di Amnesty International, ha dichiarato: “Fortunatamente, gli stati che continuano a eseguire condanne a morte sono una piccola e sempre più isolata minoranza. La maggior parte ha voltato le spalle alla pena di morte e nel 2015 altri quattro paesi hanno abolito del tutto questa barbara sanzione dai loro codici” riferendosi a Figi, Madagascar, Repubblica del Congo e Suriname, mentre quest’anno è stato adottato in Mongolia un nuovo codice penale abolizionista.”
Continuando a sperare che il buon senso possa “contaminare” anche quei pochi paesi rimasti, possiamo essere soddisfatti che in Italia la pena di morte sia stata definitivamente abolita 69 anni fa.
Cesare Beccaria già nel 1700 scriveva: … Parmi un assurdo che le leggi, che sono l’espressione della pubblica volontà, che detestano e puniscono l’omicidio, ne commettono uno esse medesime, e, per allontanare i cittadini dall’assassinio, ordinino un pubblico assassinio…
Giorgia Di Bella 2B CH