Un anno da exchange student
In questo momento mi trovo sdraiata sul mio letto a scrivere. Mi ritrovo sdraiata sul mio letto, a casa mia a Milazzo. Sento le voci dalla televisione che stanno guardando i miei genitori, le risate delle mie sorelle mentre giocano, le macchine che passano con la musica al massimo volume.
Tutto è tornato alla normalità ma allo stesso tempo é tutto così strano. Com’è strana la vita e com’è strano il tempo: quest’ultimo fattore onnipotente, paragonabile, a parer mio ,solo alla morte. Due costanti a cui nessun uomo può opporsi. A differenza della morte però, ognuno di noi è padrone del proprio tempo, siamo noi a decidere se rimanere passivi di fronte ad esso o, al contrario “assecondarlo”, cercando di vivere ogni momento, intraprendendo scelte rischiose, scelte di vera vita. Per poi poter arrivare un giorno soddisfatti di noi e delle nostre scelte.
Quest’ultimo anno è passato in un battibaleno, un anno un po’ particolare paragonato alla vita usuale di un sedicenne.
Un anno vissuto come in un sogno ma allo stesso tempo irto di ostacoli e denso di sacrifici. Un tempo lungo un anno da trascorrere, da superare ma che alla fine però ti regala la consapevolezza delle capacità che solo in certe circostanze hai la forza di tirare fuori, ritrovandoti una persona nuova, una persona che neanche credevi di essere.
Se chiudo gli occhi quanti ricordi scorrono nella mia mente, ricordi che mi fanno ancora assaporare tutte le fantastiche emozioni che il mio anno all’estero mi ha regalato. Eh si, avete capito bene, sono un “exchange student”, anzi ormai un’ “ex exchange student.”
12 Agosto 2015, un giorno normale per molti di voi, ma un giorno importantissimo per me, un giorno che mai scorderò. Ormai è passato un anno ma ricordo benissimo tutto il miscuglio di emozioni che ho provato: gioia, tristezza, curiosità, ansia. Fino a quel momento non pensavo fosse possibile provare, nello stesso tempo, certe emozioni, alcune contrastanti tra loro.
Non so dove abbia preso il coraggio ma ho salutato i miei genitori e le mie sorelle e ho preso quell’aereo che in poche ore mi ha catapultata in un mondo completamente nuovo. Un mondo pieno di colori, suoni, ritmi molto diversi da quelli a me consueti. Una lingua diversa che stentavo a capire e che usavo con difficoltà per farmi capire. Tre giorni passati a New York, tre giorni che servivano a preparare gli studenti stranieri per andare in famiglia, in quelle famiglie che per un anno sarebbero diventate le nostre. Mi sentivo come in un frullatore, tutto troppo diverso dal mondo che avevo lasciato fatto di certezze, la famiglia, gli amici i luoghi conosciuti. Tutto era nuovo e non nascondo che penso sia stato molto più duro di quello che immaginassi.
Uno dei ricordi iniziali più belli è stato l’incontro in aeroporto con la mia famiglia ospitante. Non mi aspettavo di vederli, li, subito. Mi trovavo in cerca della zona per il ritiro dei bagagli. In America non è come in Italia che i nastri che consegnano i bagagli si trovano nella parte interna dell’aeroporto, in America si esce dalla zona riservata ai viaggiatori e li, ovvero nella parte dove tutte le persone sostano in attesa di chi arriva, si trovano i bagagli. Mentre camminavo intenta nella mia ricerca, vedo un Maxi cartellone con su scritto “Welcome Alice”, tenuto da quattro persone che fino a quel momento erano perfetti sconosciuti ma che da li in avanti sarebbero diventati per me una seconda famiglia, la mia famiglia Americana. Tony, il padre; Dianne, la madre; i due fratelli Kylee e Tanner di 16 e 14 anni, la famiglia Larson. Mi hanno accolta in casa loro come se fossi stata una di loro, condividendo con me sia momenti di gioia sia quelli tristi.
Sarei ipocrita se dicessi che quest’esperienza sia stata tutta rose e fiori. I primi mesi sono stati abbastanza complicati. Adesso però, so cosa vuol dire cosa vuol dire vivere uno “shock culturale” e so quanto è difficile non giudicare, ma semplicemente accettare quei modi di fare che non avrei ma lontanamente immaginato potessero esistere. So cosa vuol dire combattere con la solitudine e con la distanza, con il fuso orario che non mi permetteva di mandare la buonanotte nel momento in cui stavo per chiudere gli occhi e non durante un allenamento di pallavolo.
Dopo i primi tre mesi però qualcosa dentro di me è cambiato. Ho iniziato ad esprimermi meglio nella nuova lingua perciò era più facile capire e farsi capire, mi sono sentita sempre più a mio agio ma restava un elemento che mi lasciava in ansia come se galleggiassi senza sapere quale fosse il mio porto definitivo e sicuro. La famiglia Larson aveva dato disponibilità ad ospitarmi come famiglia temporanea in attesa di una famiglia che mi volesse ospitare tutto l’anno e questa disponibilità doveva durare sei settimane. Non avevo nemmeno disfatto completamente il mio bagaglio e intanto i giorni passavano, le settimane anche e non arrivavano disponibilità da parte di altre famiglie.
La scuola era intanto iniziata, e io cominciavo pian piano ad ambientarmi ma mi sentivo sempre più come appesa ad un filo, non sapevo dove avrei concluso la mia esperienza, mi era stato detto che avrei potuto cambiare addirittura stato. Tutto ciò, mi veniva detto dalla responsabile dell’associazione degli scambi culturali con la stessa freddezza con cui viene trattato un pacco. Non mi hanno per niente sostenuta perciò ho deciso di prendere in mano la situazione. Questo è stato il fattore che ha “rimescolato tutte le carte”, la ciliegina sulla torta, una cosa apparentemente semplice ma di fondamentale importanza per un “exchange student”.
Sono andata dalla mia mamma ospitante e le ho espresso i miei pensieri e le mie perplessità. E lei come risposta, mi ha detto che insieme al papà ospitante e ai ragazzi avevano deciso di tenermi tutto l’anno. Meraviglioso! Non scorderò mai la gioia che ho provato nel sentire quelle parole. Da quel momento ho visto tutto in maniera diversa, mi sentivo “più protetta”, “più al sicuro”, in un posto fisso, iniziavo a mettere radici.
Lo stato in cui ho vissuto per un anno si chiama Wisconsin e si trova nel Midwest, la pancia dell’America, al confine con il Canada. Uno stato dal clima molto freddo con temperature invernali che arrivano addirittura a 30 gradi sotto lo zero. Inizialmente ero un po’ preoccupata a causa del clima cosi’ rigido ma alla fine ho visto il tutto come un’opportunità. Anche il fattore “clima” ha contribuito a rendere quest’esperienza unica. Li, ho potuto vedere la potenza della natura, ho potuto vivere a pieno tutte le 4 stagioni, cosa che non avviene qui, in Sicilia, dove a gennaio c’è già il mandorlo in fiore. La mia casa era sul lago, si un vero sogno. Nello stesso lago dove ad agosto e a giugno ho fatto i bagni, a gennaio ho pattinato.
A natale, siamo andati in Florida. Un esperienza fantastica. Siamo partiti con un camper dal Wisconsin, attraversando mezza America e dopo circa 24 ore di viaggio siamo arrivati in Florida. Un natale da sogno. Non avrei mai immaginato di fare i bagni a Natale eppure tutto ciò è successo, che esperienze fantastiche che ho vissuto!
Altre due esperienze molto importanti sono state il “Prom”, il ballo di fine anno, e la “Graduation”, la cerimonia del diploma. Che emozione indossare toga e cappello, essere chiamata e ricevere il “diploma” come se fossi stata una comune ragazza Americana, quella è stata davvero una delle più belle emozioni mai vissute.
Mi è sembrato di vivere in un film americano.
Ad ogni inizio però, corrisponde una fine. Dieci mesi sono passati. Pensandoci è stato un po’ ingiusto, dopo che ho imparato la lingua perfettamente, dopo essermi ambientata completamente ho dovuto lasciare quella vita che con tanti sacrifici mi ero costruita.
Alla partenza non avrei mai pensato che sarebbe stato così difficile, salutare tutte le persone care che lasciavo. Ovviamente non è stato un addio ma solo un arrivederci.
Il 16 giugno ,dopo 10 mesi, sono atterrata nuovamente in Italia. Sono tornata alla mia normalità, che normale però non è più. Il 16 giugno 2016 ha segnato la fine di un capitolo fondamentale della mia vita che sarà per sempre vivo dentro di me.
Alice Minniti