Maternità: purtroppo ancora oggi una questione di scelte.
Non può non suscitare scalpore e probabilmente anche sdegno la recente dichiarazione dell’artista serba Marina Abramovic. Nata a Belgrado ma naturalizzata statunitense, l’Abramovic, come lei stessa si autodefinisce, è la <grandmother of performance art>, famosa per le sue esibizioni efferate, a tinte forti, autolesioniste , che prevedono un forte coinvolgimento del pubblico. Giunta ai 70 anni, l’artista ha rilasciato un’interventista al quotidiano tedesco Tagesspiegel, nella quale racconta di aver scelto di abortire per ben tre volte nel corso della sua vita, affinché i figli non ostacolassero la sua carriera d’artista .
Ovviamente tale affermazione è perfettamente in linea con una personalità così sopra le righe e così poco convenzionale, ma le motivazioni addotte per giustificare questo totale rifiuto dell’esperienza della maternità non possono non lasciarci totalmente spiazzati. L’artista ha dichiarato che diventare madre sarebbe stato un totale disastro per il suo lavoro: infatti la sua convinzione che l’energia di ognuno di noi sia limitata, l’ha condotta a pensare che dividerla con altri avrebbe ucciso la sua arte e la sua carriera.
Precisiamo innanzitutto che l’aborto è ormai legale dagli ultimi decenni del XX secolo: in Italia , la legge che lo riconosce come pratica medica è del 1978. E’ vero però che la funzione di questa legge è di regolamentare una pratica che mira a salvaguardare la salute della madre, ad intervenire nei casi in cui il figlio in questione non è propriamente giunto in seguito ad una relazione ( ad esempio nei casi di violenza) o in situazioni economiche non proprio felici. A ciò aggiungiamo che mai l’aborto dovrebbe essere considerato uno strumento anticoncezionale.
Al confronto con queste situazioni limite, le parole dell’Abramovic fanno riflettere perché appaiono offensive nei riguardi della vita, di chi la rispetta e di chi la desidera ardentemente, come nel caso delle tante e sfortunate coppie che soffrono di infertilità
Ma se andassimo oltre la superficie, se lacerassimo la cortina di mera provocazione che ricopre le dichiarazioni dell’artista, probabilmente potremmo scoprire una dimensione non troppo lontana dalla nostra quotidianità : non è una novità né un segreto che in ambito lavorativo esistano delle differenze di genere. Le statistiche danno naturalmente un triste primato alle donne, sono le loro, ovviamente, le rinunce nei confronti della carriera nel momento in cui decidono di diventare madri. Molte donne abbandonano volontariamente il proprio posto di lavoro, lo perdono e, se ricominciano a lavorare, ciò avviene soprattutto in nero.
Nella società odierna la figura materna è considerata centralissima e ancora poco intercambiabile con quella paterna. A ciò si associa lo stereotipo della donna madre, trascinato dai retaggi del passato e alimentato ancora oggi dalle immagini pubblicitarie che evidenziano una figura totalmente dedita alla casa e ai figli, senza possibilità di appello in nome di una realizzazione personale.
Consideriamo poi in concreto le difficoltà di una giovane madre lavoratrice e in genere di una coppia che necessita di un supporto per poter allevare i figli e recarsi al contempo quotidianamente al lavoro. Le strutture pubbliche non soddisfano quasi mai le esigenze d’orario dei genitori e quelle private hanno spesso costi esorbitanti, al punto tale da rendere preferibile, a conti fatti, l’abbandono del proprio impiego. A volte, in attesa di un momento della propria vita più propizio, di maggiore sicurezza economica, si rinvia il momento del concepimento e anche questo atteggiamento può essere considerato di fatto una forma di rinuncia, in quanto con il passare degli anni di una donna, così come dimostrato dalla ricerca scientifica, risulta più difficile andare incontro ad una gravidanza.
Ecco spiegato il perché della diffidenza con cui molte donne guardano la maternità ; quello che dovrebbe rappresentare un traguardo naturale nella propria esistenza, un momento di apertura al mondo e alla vita nel senso più letterale del termine, viene in realtà percepito come ostacolo, come limite in un confronto diretto con il mondo maschile, quasi un capolinea che pone la donna di fronte all’aut aut < famiglia o carriera?>.
Anna Rita Formica